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D’Abundo è innocente, ecco le motivazioni della Corte d’Appello

La Prima Sezione della Corte d’Appello spiega perché è stata confermata l’assoluzione dell’imprenditore disposta due anni fa dal Gip, accogliendo le richieste dell’avvocato Gianluca Maria Migliaccio

La Prima Sezione della Corte d’Appello di Napoli, presidente Abbamondi, relatore dottor Picardi, ha depositato le motivazioni della sentenza con cui due mesi fa aveva confermato integralmente il verdetto del giudizio di primo grado, assolvendo Antonello D’Abundo in relazione tutti e tre i capi d’importazione, disponendo l’assoluzione “perché  il fatto non sussiste” in ordine all’induzione indebita e al millantato credito, e “per non aver commesso il fatto” in relazione all’ipotesi di rivelazione di segreti d’ufficio. La vicenda è quella nota, innescata più di un lustro fa da una serie di ispezioni e controlli effettuati presso una delle strutture ricettive della Cast Hotels, relativamente agli scarichi fognari e che, secondo l’accusa, avrebbero visto il D’Abundo e il maresciallo della Guardia Costiera Giovangiuseppe Ferrandino godere di una serie di favori (tra cui alcuni soggiorni in villaggi vacanze) in cambio di “soffiate” al titolare, Ciro Castiglione, circa lo svolgimento dei controlli stessi. Mentre il Procuratore generale nel chiedere la riforma della sentenza aveva chiesto la condanna a due anni e due mesi di reclusione, l’avvocato Gianluca Maria Migliaccio aveva invocato la conferma dell’assoluzione.

Nelle motivazioni da poco rese note, il collegio ha ritenuto integralmente condivisibile la ricostruzione dei fatti e le valutazioni operate dal giudice di primo grado. In particolare, relativamente al reato di millantato credito, il p.m. sosteneva che dal tono della conversazione tra l’imputato e Castiglione, si sarebbe potuto agevolmente desumere che “l’amico” del D’Abundo, a favore del quale Castiglione avrebbe dovuto acquistare un televisore, non potrebbe essere altri che un pubblico ufficiale e che tale richiesta fosse necessariamente connessa a prospettare una diretta intercessione dell’imputato per evitare ulteriori controlli presso la struttura alberghiera del Castiglione. Il fatto che D’Abundo abbia acquistato poi il televisore, secondo l’accusa configurerebbe comunque un’ipotesi di tentativo, ma comunque con rilevanza penale. Inoltre, relativamente al reato di induzione indebita, l’accusa ha contestato l’iter logico del Gip, il quale non avrebbe valutato in in maniera unitaria i vari elementi di riscontro alle dichiarazioni del Castiglione, arrivando a una ricostruzione illogica e contraddittoria.

Secondo la Corte d’Appello, le accuse si basano prevalentemente sulle dichiarazioni dell’albergatore Castiglione, che non reggono dinanzi alle prove documentali, che provano l’assenza dell’induzione indebita e del millantato credito

Contestazioni, quelle del pubblico ministero, che la Corte d’Appello ha ritenuto di esaminare congiuntamente evidenziando innanzitutto che la ricostruzione dei fatti accolta dal p.m. e posta alla base di tutto l’impianto accusatorio si basa unicamente sulla narrazione di Ciro Castiglione, cioè su una prova “semipiena” che necessita di riscontri. Al contrario, il Gip ha evidenziato prove contrarie di carattere documentale, quindi particolarmente affidabili: la documentazione dell’avvenuto versamento in contanti della somma da parte del Ferrandino, ma anche il documentato acquisto da parte di D’Abundo del televisore oggetto della contestata condotta di millantato credito, e quanto all’ultimo capo di imputazione, l’assenza di ogni forma di compartecipazione dell’imputato, pur presente al colloquio registrato, alla rivelazione dei successivi accertamenti di polizia giudiziaria da parte del Ferrandino.

La vicenda fu innescata da una serie di ispezioni sugli scarichi fognari presso una delle strutture della Cast Hotels che, secondo l’accusa, avrebbero visto il D’Abundo e un maresciallo della Guardia Costiera godere di una serie di favori in cambio di “soffiate” al titolare dell’hotel, circa lo svolgimento dei controlli stessi

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Con tali premesse, diventano eccessivi – secondo la Corte – i rilievi del pubblico ministero: il Gip infatti non poteva fare altro che avere un approccio definito “atomistico e parcellizzato” alla vicenda, proprio per la natura “semipiena” delle dichiarazioni di Castiglione su cui si basa l’accusa, visto che non viene ricollegata allo status di testimone puro, ma a quella di un imputato di reato connesso o comunque a quella di un testimone assistito sottoposto anch’egli, come l’imputato del reato connesso, alla disciplina che impone la ricorrenza di riscontri esterni in grado di confermarne l’attendibilità. Riscontri che nel caso in questione sono mancati. Infatti in relazione al millantato credito, dalla conversazione intercettata tra D’Abundo e Castiglione non emerge nessun indizio chiaro che possa far ritenere inequivocabilmente che “l’amico” cui il D’Abundo di riferisce fosse un pubblico ufficiale. E comunque non è sufficiente fare riferimento solo al contesto temporale in cui si svolgeva la telefonata, altrimenti, secondo i giudici, si cade in una inammissibile “doppia presunzione”, presunzioni che nascono una dall’altra, e che non hanno rilevanza probatoria, e comunque vengono smentite alla base dall’acquisto del televisore da parte di D’Abundo, quindi non si può ricondurre il caso in questione al reato di millantato credito, nemmeno nella forma del tentativo.

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Relativamente al reato di induzione indebita, l’accusa faceva principalmente leva sulla prova del bonifico eseguito dalla società gestita dal Castiglione a favore della società pugliese per contestare la ricostruzione della difesa, ma senza evidenziare elementi di prova che potessero screditare la documentazione acquisita. La Corte d’Appello ha evidenziato che la versione dei fatti fornita da D’Abundo e da Ferrandino, oltre che concorde e corroborata dalle prove documentali, sembra verosimile innanzitutto perché “risulta pienamente plausibile che il Castiglione, come amministratore delegato di alcune strutture recettizie, avesse un rapporto privilegiato con i tour operator e, di conseguenza, potesse usufruire di maggiori scontistiche rispetto a quelle riservate ai clienti comuni: in secondo luogo perché è indubbio che grazie a questa “partita di giro”, il Castiglione poteva assicurarsi la disponibilità di considerevoli somme di denaro che, altrimenti non avrebbe potuto agevolmente prelevare dal conto corrente intestato all’albergo [..]; ed in terzo luogo appare evidente che tale somma di denaro in contato, che il p.m. ritiene esigua per remunerare i dipendenti delle diverse strutture, non fosse destinata al pagamento di tutti i collaboratori degli alberghi da lui gestiti, anche quelli regolarmente registrati, ma unicamente i dipendenti eventualmente assunti senza regolare contratto o comunque da pagare “a nero”, rendendo tale cifra perfettamente congrua rispetto alla finalità perseguita”. Secondo i giudici, così si spiega la triangolazione descritta dal D’Abundo, confermata dalla prova documentale e testimoniale della movimentazione del denaro contante.

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