CRONACA

Criticò l’azienda e fu licenziato, dal Tribunale risarcimento per il marittimo

Accolto il ricorso dell’avvocato Gianluca Di Maio: la Compagnia di navigazione è stata condannata a corrispondere un’indennità risarcitoria in quanto le critiche non giustificavano il licenziamento disciplinare

La critica in azienda non giustifica il licenziamento disciplinare. Il Tribunale di Napoli ha accolto le ragioni contenute nel ricorso depositato dall’avvocato Gianluca Di Maio, e ha condannato il datore di lavoro per aver ingiustamente licenziato un lavoratore marittimo isolano a seguito di alcune sue critiche sui comportamenti della Compagnia di navigazione. Un risultato che consente al lavoratore di ottenere una cospicua indennità risarcitoria come compensazione del licenziamento.

La decisione del tribunale è stata motivata con un’articolata argomentazione diretta ad analizzare i confini tra il legittimo diritto di critica, come espressione del diritto di manifestazione del pensiero, e il vincolo di subordinazione che impone al lavoratore obblighi di fedeltà e collaborazione, dunque limitando condotte lesive del decoro e dell’immagine dell’azienda. Nella valutazione del caso concreto il Tribunale ha richiamato i precedenti di legittimità per cui il confine in questione può dirsi superato ove si attribuiscano all’impresa o ai suoi rappresentanti “qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira”. Viene poi preso in esame il limite della pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione, e che nel’ambito del diritto di cronaca viene definita “continenza materiale”, parametrata all’interesse pubblico alla diffusione dell’informazione.

Nella ricostruzione della vicenda che ha dato origine alla controversia, secondo il Tribunale, il giudice deve enucleare quei fatti da considerare rilevanti nell’integrazione della fattispecie legale, allo scopo di motivare il convincimento che lo ha indotto a ritenere rispettati tutti i limiti di continenza e pertinenza imposti all’esercizio della critica, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva né mancare di delineare l’iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento.

Il Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e ha condannato il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata nella misura di 18 mensilità, in considerazione dell’anzianità di servizio del lavoratore e dell’ultima retribuzione globale di fatto

Il comportamento del lavoratore risulta come violazione del canone della continenza sostanziale, il quale richiede che i fatti corrispondano quantomeno ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri. Dalla violazione del limite consegue che la critica rivolta dal lavoratore al datore di lavoro, idonea a ledere l’onore, la reputazione e il decoro di questi, non è scriminata dall’esercizio del diritto ed assume l’attitudine ad integrare un illecito disciplinare.

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Ciò tuttavia non importa automaticamente che tale condotta sia meritevole della massima sanzione espulsiva. È noto che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi in considerazione la circostanza che, a tutela del lavoratore, il suo inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., quindi l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. Tale accertamento, in concreto, della sussistenza di una giusta causa di licenziamento implica un duplice procedimento logico volto a valutare, da un lato, la gravità dei fatti contestati al lavoratore − tanto con riferimento alla loro portata oggettiva che soggettiva, alle circostanze di fatto nelle quali sono stati commessi e all’elemento intenzionale che li ha sorretti − e dall’altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, al fine di valutare se la lesione dell’elemento fiduciario sia in concreto tale (per la cagionata impossibilità della prosecuzione anche provvisoria del rapporto) da giustificare la sanzione espulsiva.

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In altri termini, la contestualizzazione della condotta nell’ambito di un confronto relativo anche all’operato del lavoratore, con modalità tali da non consentire un’adeguata e pertinente interlocuzione dello stesso sul punto, porta a ritenere il comportamento del dipendente espressione di una scomposta reazione ad una ritenuta impropria sollecitazione piuttosto che realmente assistito da una diretta ed esclusiva volontà di lesione dell’immagine aziendale e dunque consente di escludere che esso possa, quantomeno nella sua portata soggettiva, giustificare la massima sanzione espulsiva. Quanto alle conseguenze dell’accertato difetto di proporzionalità tra condotta e sanzione, in tema di licenziamento disciplinare, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; in tal caso il difetto di proporzionalità ricade, difatti, tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, statuto dei lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria cosiddetta forte.

Pertanto, come si legge nel provvedimento del Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro, “deve dichiararsi risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannarsi il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata nella misura di 18 mensilità, in considerazione dell’anzianità di servizio del lavoratore (circa 17 anni) dell’ultima retribuzione globale di fatto”.

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