LE OPINIONI

IL COMMENTO Nell’era di internet le elezioni che consumano i leader

DI LELLO MONTUORI

Quelli della mia generazione che ancora ricordano il pentapartito, avendo cominciato a votare nel periodo della sua dissoluzione, poco prima che il Silvio nazionale scaldasse i motori per la sua discesa in campo contro la gioiosa e perdente macchina da guerra progressista, hanno a mente le tribune politiche della fine degli anni ‘80 in cui ciascun partito si dichiarava complessivamente soddisfatto del suo + 0,1% e persino del -0,2% rispetto alle elezioni precedenti,  ritenendo queste variazioni di percentuali da prefisso telefonico quasi una vittoria o almeno non di certo una sconfitta. In fondo non perdeva davvero mai nessuno.

Erano i tempi in cui un elettorato assuefatto a ogni formula partorita nei palazzi, dalle ‘convergenze parallele’ alla ‘staffetta’ ai ‘governi balneari’ o ‘di minoranza’ delegava ai partiti la sua rappresentanza, spostando piccole percentuali di voti da un partito all’altro nell’arco costituzionale,  contribuendo a mantenere in piedi una classe dirigente inamovibile tanto in maggioranza che all’opposizione. Si parlava in quegli anni di democrazia bloccata. Dopo l’inutile tentativo di Mario Segni e la stagione illusoria dei Referendum,  ci pensó Tangentopoli e poi Berlusconi a sbloccarla, costringendo il paese a un bipolarismo innaturale salutato da molti come l’inizio della Seconda Repubblica. Così, mentre il centro sinistra consumava i suoi leader fra lotte interne e schiaffi elettorali, da Prodi ad Amato, passando per D’Alema senza considerare i singolari contributi non riusciti di Veltroni e di Rutelli, di Bersani ma anche -a volerli nominare- quelli assai meno recenti di Dini, Monti e dei mai abbastanza esecrati ed aborriti governi tecnici, nel centro destra il sempiterno Silvio da Arcore, se si esclude la stella tramontata di Fini,  reggeva -e ancora regge- le sorti  del Partito nato azienda,  che pure nei suoi anni migliori aveva portato in Parlamento personalità rispettabilissime del calibro di Marcello Pera, Giuliano Urbani, ma anche Carlo Scognamiglio, Lucio Colletti, Piero Melograni,Giorgio Rebuffa ed altri meno eminenti pure scomparsi dalle scene.

Ci ha pensato poi un toscanaccio di belle speranze assai convinto di sè a raccogliere il testimone di un centro-sinistra ingrigito dai compiti a casa di Enrico Letta assai compunto e non meno convinto di far bene. Ma la parte da leone la fanno sempre gli elettori. Loro disfano tutti i sogni di gloria dei campioni. Nel ‘94 fecero illudere Silvio di aver rifatto la DC che però resistette 40 anni con percentuali intorno al 30%,  mentre Forza Italia o ció che ne resta, dopo vent’anni arriva appena al 10% avvicinandosi al suo cupio dissolvi appena Silvio volerà -come crede lui- direttamente in paradiso. Che avesse rifatto la DC ci aveva creduto anche Matteo Renzi quando alle Europee di cinque anni fa, aveva portato il PD nientemeno che al 40% una percentuale che non si toccava dal 1948. Ma nell’era di internet la politica consuma i suoi leader. Gli elettori -quelli che ancora ci vanno a votare- cambiano rapidamente partito e beniamini. Hanno creato dal nulla il mito del movimento non partito, nato sul palcoscenico di un comico  furbissimo e gli hanno tributato alle politiche del 2018 un consenso superiore al 30% ma l’anno dopo, lo hanno già messo in punizione riportandolo a percentuali più modeste. Proprio come avevano fatto col leader assai saccente di Rignano.

Adesso hanno creato il mito dell’homo salvinianus. Durerà poco. Almeno credo. La gente incorona leader assai mediocri, furbi, per carità, con buon intuito, che annusano l’aria e seguono la marea fintanto che li porta. Ma di quella furbizia popolare. Da uomini di strada. Quelli che vivono sovente  di espedienti. Ai quali per buona sorte può finanche capitare di guidare una Ferrari senza sapersela tenere. O di dormire in lenzuola di corredo. Senza apprezzarne la fattura. Sicchè le stracciano quando ancora hanno l’odore di lavanda. La colpa non è dei leader, consumati in tempi piccoli e subito surclassati nelle simpatie assai mutevoli di elettori senza memoria e senza storia. No. La colpa non è loro nemmeno per metà. Dicono che l’elettore abbia sempre ragione. È un modo per lisciare il pelo a chi li vota o finanche a chi prima o poi dovrà votarli. Non è vero. Gli elettori hanno quasi sempre torto. Ma mica solo in Italia. Dappertutto. Basta guardare all’America di Trump o alla Gran Bretagna della Brexit. Votano con tutte le parti del corpo, meno che col cervello. Inseguono miti e spesso ne creano, si fanno condizionare da paure, diffidenze, stupidaggini, promesse ed illusioni. E in quella cabina davvero uno vale uno. Perché il voto di chi sa, vale uguale uguale a quello di chi non sa. Poco o quasi niente. Un sistema assai fallace che tuttavia ci tocca di difendere con le unghie e con i denti. Perché la democrazia come disse Winston Churchill è la peggior forma di governo, ma la migliore fino ad ora.

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