LE OPINIONI

La mistica del progresso

L'attenzione di politici, intellettuali e media è, oggi, polarizzata sulla crisi della scuola, vista come “ edificio” fisico in cui studiare e sull'architettura istituzionale dello Stato ( vedasi ultimo referendum). Si bada alla forma più che alla sostanza, nell'illusione che risieda nella “forma” il progresso. Ma non è così

Venerdì antecedente alle elezioni, eravamo seduti ad un tavolino del bar di Piazza S.Gaetano a Forio, il prof. Francesco Rispoli, Giulio Di Donato (ex segretario nazionale del PSI) ed io, in attesa di assistere alla chiusura della campagna elettorale di Vito Iacono (che non ce l’ha fatta, pur avendo ottenuto una brillante risposta dagli elettori). Su provocazione di Di Donato, la conversazione si fermò sull’interrogativo se oggi possiamo considerarci in una fase storica di “progresso”. La discussione fu particolarmente stimolante, tanto più che Rispoli ed io ci eravamo già intrattenuti, ben prima di quella sera, sul tema e la prima conclusione a cui eravamo pervenuti era che il cosiddetto “progresso” non è una costante storica né, tanto meno, è un fatto inarrestabile ed irreversibile.

In altre parole, si può anche “regredire” Giulio Di Donato, da lì a poco, doveva intervenire a sostegno della candidatura di Vito Iacono ed era sinceramente preoccupato di una involuzione sociale e culturale che sta attanagliando il nostro Paese. “Che cosa possiamo dire ai nostri giovani; che speranze possiamo loro dare, che non sia frutto di pura propaganda politica; che direzione di marcia possiamo loro indicare?”. A questi dubbi del politico di razza, si aggiungevano i nostri dubbi. Ci ho ripensato, in questi giorni, a questo dilemma e mi è capitato di leggere, in proposito, alcuni intelligenti articoli, apparsi negli ultimi giorni pre e post elezioni. Cominciamo da un articolo di Patrizia De Mennato, ordinaria di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Firenze (Corriere della Sera del 18 settembre). A proposito di scuola, su cui intellettuali, giornalisti e politici si affollano a diagnosticare fallimenti per carenze delle strutture fisiche scolastiche, insufficienza di spazi, mancanza di banchi e mancanza di personale, la De Mennato scrive: “Dichiaro subito i punti ai quali attribuisco più valore nella mia didattica: i Buoni e i Cattivi Maestri. La fiducia nelle menti degli studenti. La capacità di mettere in relazione scienza ed esperienza attraverso il pensiero analogico…Ho visto Cattivi Maestri <bravisssimi> che si innamorano del proprio parlare, ciechi ad ogni segnale di disagio o di stanchezza dei loro studenti, narcisisti e rigidi; mentre ho riconosciuto il valore di quegli insegnanti allenati ad osservare ogni minimo battere di ciglia e capaci di frenarsi e tornare indietro in ragione del grado di comprensione che erano stati capaci di suscitare, senza sentirsene, per questo, sminuiti.”La professoressa De Mennato fa parte di quegli insegnanti che propugnano la cosiddetta “Flipped classroom” ( la classe capovolta ), una didattica che prevede di capovolgere il rapporto docente-discente, nel senso che non è il maestro che indirizza l’alunno con le proprie convinzioni, ma sono gli alunni che,in autonomia, a casa ( soprattutto con l’ausilio di mezzi multimediali) fanno le loro scelte di approfondimento, e poi – in classe – illustrano al docente i percorsi che hanno intrapreso, affinché si instauri un confronto. E’ il maestro che segue l’alunno e, naturalmente, lo aiuta a definire e perfezionare il percorso autonomamente intrapreso.

Chi parla di questo? Chi parla di didattica moderna? Si preferisce soffermarsi sulla cronica mancanza di insegnanti, sui ritardi di assegnazione delle cattedre, sui banchi con le rotelle. Signori, ai miei tempi (quei tempi da qualcuno rimpianti) i professori erano sempre pochi e a Ischia non volevano venire. Pertanto ci abbinavano con altre sezioni per sopperire all’assenza di insegnanti. Ma fu proprio grazie a ciò che noi della sezione B avemmo la fortuna di conoscere i metodi di insegnamento del prof. Edoardo Malagoli, che seminava dubbi non certezze e che ci faceva rendere conto che la cosa più importante è “sapere di non sapere”, per cui dobbiamo “scavare”, ricercare, riflettere continuamente ed essere eterni “scolari” alla ricerca del “bene”, del “bello”, del “giusto”, ben sapendo che i loro assoluti sono irraggiungibili ed inafferrabili ma che ci dobbiamo sforzare di avvicinarsi sempre più. E lo scrittore Alessandro D’Avenia, nella sua magnifica rubrica “Ultimo banco” su il Corriere della Sera, ha scritto parole illuminanti sui presunti “fallimenti” dei figli. Figli che disattendono le aspettative dei genitori, che fanno scelte autonome diverse e forse meno ambiziose e pretenziose di quelle agognate dai padri e dalle madri. Ma sono scelte loro, è l’affermazione della loro personalità. E i genitori devono capire che li devono amare per quel che sono e per le scelte che fanno. Anche qui, come per la scuola, si tratta di capovolgere un rapporto tradizionale: i figli scelgono e i padri accettano e aiutano quella scelta. E, per finire, veniamo all’editoriale del settimanale 7 Corriere della Sera, a firma di Francesco Monico, professore di archetipi dell’immaginario e di Filosofia della Tecnica in varie Università italiane. Il titolo dell’editoriale è “Il progresso senza più immaginazione”. Ci spiega il professore che il termine “progresso” viene dal latino e significa “andare avanti” e pertanto sembra implicita l’idea di una continua evoluzione graduale dal bene al meglio. Invece così non è, siamo – afferma Monico – in piena Antropocene, un’epoca in cui l’ambiente viene condizionato, su scala locale e globale, dagli effetti dell’agire umano.

Nell’antichità – ci dice il professore – prevaleva una concezione della storia umana vista come un regresso, in cui la Natura era un potere superiore alla volontà dell’uomo. L’idea di “progresso” nasce col Cristianesimo e, nella visione cristiana, l’uomo tende al meglio, all’infinito, al divino, mentre la Natura è strumento per assecondare i fini umani. Poi il Rinascimento, il Settecento e l’Ottocento hanno ripreso e rafforzato il concetto di progresso, trasformandolo – per lo più – in “ sviluppo”. E col XX secolo siamo arrivati alla globalizzazione e c’è una catastrofe dell’immaginazione, non siamo più capaci di narrare un mondo, un’economia, una produttività che non sia quella dettata dal mondo globale. Da qui la “ mistica del progresso” di cui ogni uomo non è che un tassello utile a un illusorio miglioramento continuo. Ho riflettuto su questi scritti e ho ripensato al tavolo con Di Donato e Rispoli e ai nostri dubbi. Tutti e tre, con ruoli molto diversi e responsabilità diverse, abbiamo – in passato – immaginato un futuro “ riformista” e quindi migliore. Oggi sappiamo che non sempre si migliora; la storia fa anche dei passi indietro, conosce anche oscurantismi, nichilismi, ma questo non inficia la necessità di riprendere il filo e continuare a immaginare un futuro migliore, sottraendosi alla dittatura del pensiero economico e sociale unico e globale.

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