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Pensieri in libertà

Negli anni la nostra isola è diventata una meta turistica frequentata da milioni di persone, grazie a un pregio (innegabile) che ha caratterizzato noi isolani, o meglio le vecchie generazioni. Una laboriosità, una dedizione al lavoro, la voglia di seguire il solco tracciato dall’indimenticato precursore che rispondeva al nome di Angelo Rizzoli. Poi, però, qualcosa si è improvvisamente inceppato: dire che è colpa del grasso che ci è arrivato fino al cuore potrebbe apparire l’apoteosi della banalità, ma forse corrisponde al vero ed in ogni caso non serve nemmeno addentrarci in analisi sociologiche inappropriate per una di quelle domeniche in cui si legge ancora sotto l’ombrellone.

Uno spunto significativo di riflessione su quello che invece ad un certo punto, dopo il boom degli anni d’oro, ha frenato lo sviluppo del territorio e con esso anche pesantemente infettato la mentalità di noi ischitani, è racchiuso (anche) in un post che è apparso sui social network e nel quale mi sono imbattuto in maniera del tutto casuale. Ma che sono andato a leggermi con attenzione, perché riguardava il nostro lavoro e ancor più nello specifico questa testata. Punto di partenza, la mancata presenza de Il Golfo alla conferenza stampa svoltasi presso la capitaneria di porto di Napoli, in cui si faceva il punto sugli sviluppi relativi all’area marina protetta Regno di Nettuno. Non sto a dirvi che il giornale era presente, perché non sarebbe nemmeno questo il punto. Pur senza voler scendere in polemica con nessuno, non posso fare a meno di sottolineare come in quel post abbia letto una sorta di metafora esistenziale dell’ischitano medio, il quale trascorre gran parte del suo tempo a guardare cosa fa il prossimo, come lo fa (e pazienza che spesso non ha capacità di giudizio, questo facciamo pure finta che sia un dettaglio), piuttosto che ad occuparsi del suo orticello, di casa sua, della sua azienda.

In realtà, leggendo quel post, non mi sono neppure meravigliato più di tanto, perché ormai è lo stile radicato nella nostra quotidianità. E appare evidente come questo possa rappresentare un limite nel quale ci siamo clamorosamente arenati, addirittura impantanati: non abbiamo più voglia di crescere, forse ne abbiamo timore, vogliamo difendere in qualsiasi settore posizioni che – più o meno a giusto titolo – riteniamo che debbano essere acquisite. Per fortuna gli adepti di queste pseudo crociate denigratorie, col tempo, sono decisamente calati e questo fa ben sperare per il futuro. Ma la preoccupazione c’è eccome. Perché se ad esempio si abbandona ad un commento così banale e monotono da non poter essere nemmeno definito tagliente il direttore di un Festival internazionale, chiamato a fare da relatore e ospite in ogni angolo del pianeta, appare chiaro che il nostro sia un Dna che non va via nemmeno con una trasfusione reiterata. Così come se un operatore dell’informazione (qualcuno dice che sia tale, ma confesso di non aver mai capito il perché) comincia a parlare di mestiere “faticoso” e fa filosofia spicciola dopo che – fino a quando ha ricoperto il ruolo di corrispondente della maggiore agenzia di stampa italiana – non lanciava un take nemmeno se veniva giù una montagna, è chiaro che devo ritenere che quello di provare a sputtanare il prossimo debba essere considerato sull’isola alla stregua di uno sport olimpico. Sì, è vero, una volta ci avrebbero “azzuppato il pane” un centinaio di persone, mentre adesso sono rimasti pochi sfigati. Ma al di là di questo dato numerico, che apre il cuore alla speranza, resta un fatto. Ischitani si nasce, non si diventa. Purtroppo.

 

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