LE OPINIONI

IL COMMENTO Quella scissione di 100 anni fa

In questi giorni di crisi politica, traspare – tra mille critiche – un rimpianto per i grandi politici del passato. Si mettono a confronto ministri e parlamentari di oggi con leader e statisti del passato, sottolineandone la diversa statura morale, culturale e di spessore politico. Ma ci si dimentica che alcuni guasti dell’attuale quadro politico-istituzionale derivano da certe irrisolte questioni storico-politiche fondamentali. Una di queste questioni, che si riverbera fortemente sulla debolezza dei tempi attuali è, certamente, la scissione di Livorno nel gennaio del 1921.Come è noto, il 21 gennaio di quell’anno, la componente rivoluzionaria del Partito Socialista abbandonò il Congresso per fondare il Partito Comunista. E per una strana coincidenza, fra pochi giorni, ricorreranno anche 30 anni dalla trasformazione del Partito Comunista in PDS (Partito Democratico della Sinistra). L’intento della scissione era quello di costituire una falange rivoluzionaria che guidasse la classe operaia alla conquista del potere. In quel Congresso si fronteggiavano, in realtà, tre diverse correnti: i comunisti, che erano decisi ad attuare quella rivoluzione che l’ala massimalista predicava ma non metteva in atto, dall’altro c’era l’ala riformista di Filippo Turati, che considerava fallimentare l’esperienza russa e predicava un passaggio graduale e riformista attraverso gli istituti della democrazia parlamentare. In mezzo a queste due ali contrapposte, c’erano i massimalisti, che teorizzavano la rivoluzione ma erano contrari ad espellere i riformisti, cosa che era auspicata dall’Internazionale Comunista da Mosca. Filippo Turati veniva considerato un “socialtraditore”, pur essendo rimasto marxista ed anticapitalista. Turati voleva evitare ogni passaggio violento e fece di tutto – tra l’altro – per fermare quanti cedevano ad atti di violenza.

Questo pendolo tra rivoluzione e riformismo, con la complicazione del massimalismo verbale, determinò una situazione di distacco dal sentire comune di larga parte degli italiani. Infatti, mentre nel 1919, il Partito Socialista aveva ottenuto il 32,3%, col sistema proporzionale, e la lista fascista, presentata a Milano da Mussolini, fece fiasco; tre anni dopo, Benito Mussolini divenne capo del Governo. La spaccatura di socialisti e comunisti, la permanenza all’interno dei socialisti dell’ala massimalista avevano determinato una sterilizzazione all’opposizione dei seggi parlamentari, che non portava da nessuna parte, in quanto si era all’interno delle istituzioni prefigurandone la fine per rivoluzione. Tale situazione non vi ricorda qualcosa dell’attualità? Non vi ricorda l’entrata in Parlamento di chi lo voleva aprire come una scatoletta per disfarlo? Era allora che la popolazione si doveva scandalizzare e mettere in allarme, non oggi che il Movimento sembra essersi normalizzato ed integrato nei meccanismi della democrazia rappresentativa.

Chiusa parentesi e torniamo alla storia. In un dibattito organizzato da Il Corriere della Sera, Marco Follini (democristiano) ha detto: “L’ambiguità e la lentezza nel superare il mito sovietico sono costate care. Il PCI svolgeva una funzione fondamentale di opposizione, di denuncia, di tutela dei ceti deboli. Ma il suo legame con l’URSS ha bloccato la democrazia italiana”. Giuseppe Vacca (comunista) ha aggiunto: “Nel 1964, Togliatti constata che il centrosinistra, con l’ingresso dei socialisti nell’esecutivo, incontra gravi ostacoli e le classi possidenti non consentono una via riformista e socialdemocratica. Da qui la convinzione che era meglio premere dall’esterno per ottenere le riforme con la costante mobilitazione popolare. Insomma, Togliatti era per una “guerriglia” mossa dall’esterno delle istituzioni. In tutto questo s’innesta Antonio Gramsci, grande pensatore, che sicuramente era lontano dalla via bolscevica al socialismo. Egli teorizzò, con molta efficacia, la conquista dell’egemonia culturale, per cambiare i paradigmi che fin lì avevano condotto ad una visione capitalista della società. Ma era evidente che tale conquista non aveva una fisionomia democratica. L’egemonia culturale presuppone una limitazione della libertà di pensiero, quantomeno una “manovra”, una forzatura degli indirizzi culturali del Paese, con l’occupazione delle “casematte” della Cultura, dell’Università, della Giustizia, dei mezzi di informazione. E poi Gramsci fece attività politica per pochissimo tempo, il resto lo passò nella prigione fascista. Gramsci, in realtà, non ebbe la possibilità di scrivere un libro vero e proprio, data la sua condizione di prigioniero politico. Suo è il saggio “Alcuni temi della Questione Meridionale” e, soprattutto, gli appunti per i Quaderni dal Carcere. Di spessore è la lettura che egli fece degli anni ’29-30 e della grande crisi economica mondiale. Anticipò, al riguardo, il tema moderno del contrasto tra il cosmopolitismo di un’economia sempre più globale e il persistente nazionalismo della politica. Di una grande umanità poi sono le Lettere dal Carcere, alcune delle quali sono state oggetto di traccia per i temi della maturità.

Facendo un salto nella storia e arrivando ad Enrico Berlinguer, notiamo come la teoria di Togliatti che la socialdemocrazia non “sfonda” nella politica italiana dominata dalle classi abbienti, viene da Berlinguer interpretata in altro modo e cioè con l’idea del “compromesso storico”. In altri termini, visto che l’ingresso dei socialisti o comunisti nel potere viene ostacolato e marginalizzato nel limbo politico, Berlinguer ritiene di trovare un grimaldello col “compromesso storico” tra PCI e Democrazia Cristiana. E lo fa bypassando il Partito Socialista Italiano. Questo soddisfa larghi strati dei democristiani, che erano insofferenti del riformismo socialista che pretendeva di incidere oltre la rappresentanza numerica che riscuoteva. Meglio, in altri termini, mettersi d’accordo tra le due grandi Chiese: democristiana e comunista. Sempre Berlinguer accentuò questa presa di distanza comunista dai socialisti in due modi: la questione morale e l’austerità. Sostenne che il PCI era “differente” dagli altri perché moralmente superiore e sostenne che la società italiana e la politica italiana avessero bisogno di “austerità”, di rigore etico-economico, che cozzava fortemente con la componente libertaria e laica dei socialisti.

Craxi, segretario PSI, era – al contrario – per una società vitale e dinamica, libera e alla ricerca di una felicità economica e sociale. Si scontravano due modi diversi di concepire la vita. Poi fu la volta della trasformazione del PCI in PDS, con Achille Occhetto alla Bolognina e poi ancora in Partito Democratico. Quest’ultimo avrebbe potuto sanare le ferite del passato, inglobando le tre componenti storiche della tradizione cattolico-popolare, di quella socialista e di quella comunista, Invece, ancora una volta, trionfò l’accordo quasi esclusivo tra ex DC ed ex PCI. Una “fusione a freddo”, le cui contraddizioni pesano ancora oggi. E Massimo D’Alema, ancora oggi, sostiene che il Partito Comunista è sempre stato riformista. E questo contrasta con la storia. La verità è che man mano che i comunisti si rendevano conto che il riformismo (sostenuto ben prima dai socialisti) era l’unica strada percorribile, cercarono di prendersene il brevetto. E come spesso è accaduto nella storia della sinistra, i socialisti scuotevano l’albero e i comunisti ne raccoglievano i frutti. I socialisti, esclusi da questo patto storico a due, e colpiti più di tutti da Tangentopoli, smarrirono la bussola e si disintegrarono in vari filoni. Ci fu un esodo in lidi diversi e, a volte, contrapposti. Si divisero tra Forza Italia, partitini minori di nuovo conio e Partito Democratico. Ecco da dove nascono molti limiti ed equivoci della politica attuale, La questione morale di Berlinguer, volgarizzata soprattutto dai 5 Stelle, ha portato al giustizialismo, alla facile criminalizzazione. Come diceva Nenni: “Alla ricerca della purezza in politica, c’è sempre uno più puro che ti epura!” L’estremismo ideologico (di destra e di sinistra) non approda a nulla e il riformismo di struttura non decolla a causa delle eterne divisioni interne.

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Sorvolo sulla parentesi di Renzi, segretario del PD, che aveva tentato di convertire il partito al liberismo e al fiancheggiamento di Confindustria. A illustrare molto più dettagliatamente questi passaggi storici, di recente, sono intervenuti alcuni libri: “Dalla rivoluzione alla democrazia” di Piero Fassino, ex segretario di Partito, ex Sindaco di Torino, “Il Pci e l’eredità di Turati” del giornalista Paolo Franchi e “Ombre rosse” di Antonio Carioti, con saggi di Luciano Canfora ed Ernesto Galli della Loggia. Conclusione: se non ripercorriamo criticamente questi avvenimenti storico-politici, non capiremo le difficoltà della politica attuale. In questa confusione, se ne sono dette di tutti i colori contro il premier Giuseppe Conte, che sarà anche privo di un solido retroterra politico, ma che ha individuato, nella corrente crisi, uno dei nodi centrali per uscire dall’impasse: il richiamo ad un’aggregazione dei filoni più significativi della nostra storia politica: tradizione cattolico-popolare, tradizione socialista, tradizione liberale e quella comunista. Nel nome dell’Europa, della democrazia occidentale, contro il sovranismo e i suprematismi.

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