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E faccio o’ show – “Quattro spaccati di vita isolana”

Dopo più settimane di notizie di arresti, di obblighi vari, di corruzioni e falsi di varia natura, in attesa (vana) di un prossimo “free market” condito da “palatelle fumanti” e “cachi maturi”, desidero offrire al lettore, tartassato a destra e a manca, la possibilità di un sorriso. Mentre giro in macchina tra incazzature di semafori interminabili, soste selvagge e belle statuine al controllo che, per dirla col Giusti, sembrano “posti nella vigna a far da palo”, lo spunto me lo offre l’ascolto di una canzone di Arbore degli anni 80 “E faccio o Show”. Con essa, lo showman pugliese, mette in chiave canterina l’indole di tanti (meridionali in modo particolare), di trasformare in spettacolo ogni cosa che è chiamato a fare. La chiamo sindrome del palcoscenico le cui sfaccettature sono tante. Lo spettacolo, comunque sia (impegnato, leggero, comico o tragico) continua sempre. The show must go on, è detto in gergo anglosassone. Nell’intento avanti detto, di offrire la possibilità di un sorriso, mi soffermo su alcune (4 per dovere di spazio) forme di spettacolo vissuto, nella quotidianità isolana che titolo: a) in strada; b) in chiesa, c) in ospedale, d) in tribunale.

 

  1. A) In strada: Sull’isola d’Ischia esistono vari plessi scolastici ai quali si accede direttamente dalla strada carrabile. Quasi sempre ci sono i vigili urbani che “regolarizzano” il traffico per l’ingresso in sicurezza dei ragazzi a scuola. I ragazzini che vanno a scuola, sono adocchiati, dal vigilante, già prima che scendono dall’auto del genitore che li accompagna. Alla vista del minore, sebbene ancora protetto, il vigile si determina, in automatico, a porsi al centro della strada con le braccia aperte (a mò di Cristo in croce) per fermare i veicoli. I bambini escono dalle auto e, padroni assoluti dell’area, l’attraversano di corsa per entrare a scuola. Sulla strada principale il vigile si porta, con le braccia aperte, ad ogni occasione in cui, oltre ai ragazzi, si avvicinano auto da vie laterali per inserirsi sulla principale. La manovra si ripete innumerevoli volte con intasamento della circolazione. Nella scena che si determina è palpabile la gaudenzia dell’operatore del traffico che, in ossequio alla “sindrome del palcoscenico”, percepisce di essere al centro dell’attenzione, come non mai, e incurante di non rendere un buon servizio, al piccolo utente della strada (che prima di attraversarla dovrebbe imparare a fermarsi, guardare a due lati, attendere il suo turno, caso mai, in compagnia di altri), continua imperterrito nello show. Risultato? Nelle altre ore del giorno, quando non ci sono i vigili per strada, troviamo bambini che “convinti di essere padroni di essa” l’ attraversano con la stessa metodica. Lo show è show e deve continuare.

 

  1. B) In chiesa. Un celebrante faceva precedere l’inizio della funzione, da un’ora di canti liturgici o similari. Poi usciva dalla sagrestia e, come Mosé sul Sinai, con le braccia al cielo reggendo il messale, attraversava le navate laterali e poi dalla centrale raggiungeva l’altare seguito tre chierichetti: due per aprirgli la tonaca ed uno a fumeggiargli d’incenso il passaggio col braciere portatile. Giunto sull’altare prendeva posto in una grande sedia al centro con lo sguardo in alto perduto nell’aldilà. Scorrevano, altri dieci minuti di canti prima della iniziale frase “salutate Gesù Cristo”. E più di qualcuno, in chiesa, invece del “sempre sia lodato” era mormorare “assa fa Dio, s’è deciso”. Non sapeva, il parrocchiano, che lo show è show e doveva continuare. Alcuni anni fa, per la morte della mamma di un mio amico, mi recai al funerale della defunta. In chiesa, il festival dei canti era già nelle note più alte. I parenti della defunta, in piedi, costernati dal dolore, manifestavano chiari segni di stanchezza per la condizione. Porsi loro le mie condoglianze. Dopo di che chiesi ad un vicino se la funzione fosse già terminata. Risposta “macché stann’ cantan già a mezz’or”. Dopo un quarto d’ora, uscì il Mosé paesano, con le bracce al cielo e i chierichetti al seguito. I canti continuavano ininterrottamente. Io ero verso la porta di uscita non essendoci posti a sedere. Dopo altro tempo, che apparve lunghissimo, i canti si fermarono. Il “Mosé” iniziò una serie di giaculatorie magnificanti della defunta che apparivano chiaramente sproporzionate per la semplicità del destinatario. Dopo circa mezz’ora delle persone, che appresi non essere del luogo, le notai guadagnare l’uscita. Tra di loro borbottando, con chiaro accento capitolino, dicendo “una cosa del genere a Roma non s’è mai vista”.  In un momento (raro) di silenzio generale, nella chiesa rintronò un prolungato “toc toc toc toc”. Io che ero nei pressi della porta mi voltai incuriosito per capire da dove provenisse quel rintocco (che non era vicino alla mia posizione). Guardai negli occhi al mio vicino, persona del posto e frequentatore di quella Chiesa, come per chiedergli cosa fosse. Risposta “Non farci caso. Ad ogni funerale il morto che non ce la fa più a sentire il prete e bussa per essere seppellito prima. Il prete capisce e si sbriga”.  I romani scoppiarono a ridere dicendo “a Marcé hai sentito? Pure il morto non lo regge più”. The show must go on.

 

  1. C) In ospedale. Le performance ospedaliere dei clinici non sono da meno. Chi si sofferma a guardare i camici bianchi, ciondolanti nei corridoi dei nosocomi ha l’impressione che, più che impegnati a soccorrere un malato, stiano andando a scrivere un manoscritto. Ognuno di loro ha nel taschino del camice immacolato, due o tre penne, un doppio decimetro di carta e, appeso al collo uno stetoscopio. Il loro deambulare pacato, con i piedi che strofinano il pavimento, è inversamente proporzionato alle aspettative di celerità del malato (opportunamente definito paziente) e si sviluppa con atteggiamento molto simile a quella del grande Eduardo quando si aggira attorno il presepe, in Natale in Casa Cupiello e lo guarda sorridente. Lo show è show.

 

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  1. D) In Tribunale. E’ il luogo che per eccellenza, meglio, si presta allo spettacolo. Non a caso il protagonista si chiama “attore”. Un esercito di avvocati, tutti i giorni, raggiunge il palazzo di giustizia. Tra essi spicca un gruppo di agguerrite giovani avvocatesse. Sempre più affascinanti, che con passo armonioso e look che molto spesso lascia poco spazio all’immaginazione del “maschio guardone”, si aggirano tra fascicoli, ricolmi e polverosi che rendono poca giustizia alle mise indossate. Mi ha raccontato un avvocato che giorni fa, contrapponendosi ad una collega, giovane e avvenente, nel cui processo aveva sollevato una eccezione procedurale, si sentì rimbeccare dalla stessa con le seguenti parole “avvocato lei solleva tale eccezione per il fatto che non gliela abbia data!!!”. Bellissimo. Anche l’impersonale “lei”!. Sembra che qualche altro collega, buon tempone, si sia subito introdotto promettendo alla collega di non sollevargli mai eccezioni di sorta. Speriamo che ne abbia il beneficio agognato. Nel regno della giustizia, tutti appaiono impegnati oltre l’inverosimile, anche quando vanno al bar per il caffè. Tutti, gli addetti al comparto, si ritengono portatori del verbo. Nessuno resta, però, alieno alla poco nobile arte del discredito altrui. Il cliente arriva convinto di avere sempre ragione. L’avvocato la mattina lo è un po’ meno della sera precedente. Si mostra affannato alla ricerca delle carte e gira come una trottola per mostrare il suo impegno. Se la causa non raggiunge l’esito sperato si affretta a dire, con tono deciso, che farà appello. Il Giudice,di fronte alla marea di carte, di avvocati e delle parti che si affannano, sembra che stia lì a chiedersi “ma questi che vogliono da me?”. Nell’immutabile desiderio di manifestare il proprio dominio ambientale, non lesina a richiamare, anche sgarbatamente, qualche malcapitato che si lascia, inavvertitamente, suonare il telefono in tasca. Le udienze si trascinano da sei mesi ad un anno, salvo, talune, che acquistano velocità per la decisione, per poi essere rimesse sul ruolo, per qualche supplemento (inutilmente, chiesto prima del rito delle conclusioni, delle memorie e delle repliche ). E così bivaccano per altri due anni in giri vari. Lo show è show e…. continua.

I quattro spaccati, portati ad esempio (in strada, in chiesa, in ospedale e in tribunale) della quotidianità della nostra isola, tendono a mettere in evidenza la condizione o il metodo di vita nel quale, da anni, siamo stati rapiti. Esserci per apparire e non per fare.

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Domanda: alla luce degli eventi che la stampa degli ultimi tempi c’ha catapultato addosso, con dovizia di particolari (trasporti, sanità, giustizia, moralità e disonestà) c’è qualcuno, in controtendenza,  che è disposto a ritenere giunta l’ora di fermare lo spettacolo per dedicarci al fare?. O restiamo sempre nel detto “ The show must go on”?

 

acuntovi@libero.it

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