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Resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, condannato a un anno di reclusione

ISCHIA.  Un anno di reclusione, il risarcimento dei danni (da liquidarsi in separata sede) e il pagamento di duemila euro di spese processuali per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni fisiche. È  questo il cuore della sentenza di condanna nei confronti di Antonello D’Abundo, per  fatti che risalgono al dicembre 2014 e costarono al 46enne il rinvio a giudizio per due capi d’accusa: il primo per il reato previsto dall’articolo 337, in quanto “usava violenza e minaccia nei confronti dell’assistente capo della Polizia di Stato Maurizio Bianculli per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio. Nella fattispecie non ottemperava all’invito, che l’Assistente gli aveva rivolto, di esibire i documenti di circolazione ed assicurativi dell’autovettura Mercedes cl.B tg EN776SB su cui si era posto alla guida e innestata la marcia tentava dapprima di investirlo e poi, al tentativo dell’Assistente di Polizia di fermarlo, reagiva bloccandogli la mano destra nel finestrino della portiera lato guida e trascinandolo per alcune centinaia di metri”. Il secondo capo d’imputazione era relativo al reato previsto “dall’articolo 81 cpv, 582, 585 in relazione all’articolo 576 c.5 bis del codice penale, perché al fine di commettere il reato di resistenza a pubblico ufficiale e in esecuzione del medesimo disegno criminoso, provocava a Maurizio Bianculli lesioni personali giudicate guaribili in sette giorni”. Il decreto di rinvio a giudizio fu emesso dal Gip del Tribunale di Napoli nell’aprile 2015, ma solo undici mesi dopo prese il via il processo, nel corso del quale furono ascoltati, oltre all’imputato e alla persona offesa, una serie di testimoni per ricostruire ciò che effettivamente avvenne l’11 dicembre di quattro anni fa. Testimonianze da cui il giudice monocratico della sezione penale della sede del Tribunale di Ischia ha ritenuto provata la penale responsabilità del D’Abundo.

Innanzitutto, la deposizione di Emanuele Le Noci, agente in servizio presso il commissariato di Ischia: egli insieme a un collega intervenne sulla scena dei fatti proprio a seguito di una richiesta della persona offesa, l’agente Bianculli. Sul posto, quest’ultimo era alle prese con i documenti dell’imputato, che venne portato in caserma per l’ulteriore identificazione. In quell’occasione il teste precisò di aver visto l’assistente Bianculli dolorante alla testa, al punto da essere costretto a ricorrere alle cure dell’ospedale Rizzoli di Ischia.

Bianculli non era in servizio quando fu coinvolto nell’episodio contestato: lui stesso raccontò nella deposizione del maggio del 2016 che, mentre si trovava nella propria auto con la moglie a Forio, venne urtato dalla vettura condotta da D’Abundo. Siccome i due conducenti non riuscirono a trovare un accordo sulla responsabilità del sinistro, Bianculli propose all’altro di scambiare dati e documenti, senza far  valere la sua qualità di sovrintendente della polizia di Stato, ma il D’Abundo si allontanò. Quello stesso pomeriggio, l’agente si recò presso l’officina del signor Filippo Cuomo. E qui avvenne il fatto centrale della vicenda: Bianculli apprese da Cuomo che l’assicurazione con la quale D’Abundo disse di essere regolarmente coperto per la responsabilità civile era in realtà scaduta da diversi giorni, e proprio pochi minuti dopo ecco arrivare per pura coincidenza anche D’Abundo nella stessa officina. L’agente si posizionò all’esterno dell’officina chiedendo l’intervento di una volante per i necessari controlli, ma quando il D’Abundo risalì la rampa di accesso e il Bianculli intimò l’alt, stavolta mostrando il tesserino che lo qualificava, il primo accelerò col serio rischio di investire l’ufficiale di polizia che, aggrappandosi al finestrino, rimase col braccio bloccato all’interno dello stesso, finendo per essere trascinato per alcuni metri dall’auto, fino a che questa non si fermò a causa del traffico. Un episodio che costò lesioni al braccio e alla spalla giudicate guaribili in una settimana.

Le testimonianze successive non sono state sufficienti a smentire la ricostruzione del pubblico ufficiale, a partire da quella resa dalla compagna dell’imputato, che riferiva di aver saputo da quest’ultimo di essere stato “ammazzato di botte” in commissariato. Lo stesso D’Abundo depose in aula nel dicembre 2016, con una versione naturalmente molto diversa, affermando di essere stato minacciato al momento del sinistro con espressioni violente e offensive, poi essere stato sorpreso dai pugni del Bianculli sulla sua auto nel pomeriggio presso l’uscita dell’officina, senza aver mai chiuso il braccio del pubblico ufficiale nel finestrino e infine di essere stato malmenato in commissariato, quando dal certificato rilasciato dal 118 si evinceva solo uno stato di ansia e assenza di traumi.

Il giudice Capuano ha ritenuto ampiamente dimostrata la responsabilità dell’imputato, motivandola tramite le conferme emerse nelle dichiarazioni rese dal testimone Le Noci, dallo stesso teste della difesa, Cuomo, titolare dell’officina nei cui pressi si verificò uno dei fatti centrali della vicenda, e dal referto medico dell’ospedale. Il racconto dell’assistente capo Bianculli secondo il magistrato è perfettamente compatibile con tali elementi, anzi disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le dichiarazioni rese dalla compagna dell’imputato in ordine al reato di falsa testimonianza. Per il reato di resistenza a un pubblico ufficiale, il giudice ha ricordato che esso si configura anche se l’ufficiale non è in servizio, in quanto pure  in tali circostanza egli è tenuto a esercitare le proprie funzioni, come ha riconosciuto anche la giurisprudenza più recente. Il magistrato, in considerazione della condotta processuale dell’imputato e dei suoi precedenti, ha poi ritenuto di non concedere le attenuanti generiche, ritenendo D’Abundo colpevole dei reati contestati, uniti dal vincolo della continuazione. La pena irrogata è comunque minore a quella chiesta dal pubblico ministero, il quale aveva invocato una condanna a un anno e sei mesi di reclusione

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