LE OPINIONI

IL COMMENTO Il Mondo vada avanti, con noi o senza di noi

DI LELLO MONTUORI

In definitiva, alla prova dei fatti, né il Governo nazionale, né le amministrazioni regionali, si stanno dimostrando in grado di fronteggiare la più grave emergenza sanitaria dell’ultimo secolo, con devastanti riflessi sociali, economici e di ordine pubblico, la cui portata andrà riletta, senza emotività e partigianeria ideologica, negli anni futuri. Una emergenza di portata mondiale e di tale complessità, per le drammaticità delle sue implicazioni, che sarebbe riduttivo pensare di affrontarla con i mezzi di cui dispongono i singoli paesi. Soli, ognuno a modo suo, di fronte alla enormità di questa sciagura. Ciò nonostante, sembra che non se ne possa parlare e nemmeno scrivere, senza incorrere nelle censure dei nuovi sacerdoti della ortodossia dell’emergenza, quelli ispirati dal sacro fuoco della fede cieca nei provvedimenti del Governo, del Governatore o del Sindaco di turno, quelli dai quali, ad ogni obiezione è troppo facile sentirsi dire: “Ma perché, se tu fossi stato al loro posto, cosa avresti fatto?”

Non vale. Gli amministratori pubblici servono anche a questo: governare le emergenze, quelle che l’uomo comune, il quivis de populo, non ha l’obbligo di provare a risolvere. Dallo stato di allerta per le avverse condizioni meteo, alle emergenze sanitarie. Amministrare, tuttavia, è un compito difficile. Forse la più difficile tra le attività umane. Talvolta addirittura sovrumana, per gli sforzi che richiede, sia per la capacità di mediazione degli interessi coinvolti, sia per la capacità di antivedere le conseguenze delle proprie scelte nel futuro più prossimo della comunità e in quello a lungo termine. Antivedere. Se solo uno avesse appena un po’ di questa dote. Che non è divinazione, solo ragionevole capacità di immaginare gli effetti di ciò che si decide. Perciò, spesso, è incomprensibile la corsa a candidarsi a ruoli di governo, dal centro alla periferia, ruoli di amministrazione attiva, ai quali sono connaturati tali e tanti profili di responsabilità, che qualsiasi persona di media intelligenza finirebbe col sentirsene schiacciato.

Ma tant’è. Sovente si arrisica nel ruolo complicato di amministratore, anche chi farebbe bene a starsene quieto a casa sua. O pensa di cimentarsi nell’impresa chi crede che amministrare sia portare continuamente a compimento ‘operazioni’. Il più delle volte elettorali. Come se con le elezioni si governassero i problemi. Comunque, di che tipo di operazioni si tratti, spesso non lo sa nemmeno chi le fa. E in ogni caso, se questo ridicolo esercizio di rimpallo delle responsabilità individuali e collettive deve continuare e il “se c’eri tu cosa avresti fatto” deve essere adempiuto come un rito, proviamoci pure a scrivere cosa si sarebbe potuto fare e cosa magari si può ancora fare. Ammesso che si possa. Un esperimento, per puro esercizio intellettuale, senza pretesa di alcun seguito da parte di nessuno. Nemmeno di me stesso.Che sovente io stesso non mi seguo.

Allora cominciamo. L’Italia non è Vo’ Euganeo, dove hanno eseguito, durante la prima ondata di contagi, i tamponi a tutti residenti (poco più di tremila anime) realizzando il tracciamento. L’Italia non è nemmeno una provincia della Cina, dove pare abbiano eseguito ultimamente nove milioni di tamponi in pochi giorni. Così, giusto per escludere un possibile focolaio in una piccola provincia di campagna della Repubblica popolare. Ma noi siamo noi. Alle condizioni date. Cioè questi sono i pastori e con questi pastori si fa il presepe. Forse avremmo dovuto abolire fin dall’inizio i protocolli, quelli che contrastavano con la libertà di cura e le intuizioni diagnostiche -a volte straordinarie- dei nostri medici più bravi. Ce ne sono tanti qui da noi di medici bravissimi, vittime essi stessi di un sistema sanitario purtroppo largamente inadeguato. Abolire i protocolli, dicevamo. Magari quegli stessi protocolli che hanno impedito per mesi a tanti medici di eseguire autopsie per capire di cosa morivano davvero i pazienti contagiati. Medici assai in gamba che hanno dovuto -a loro rischio- contravvenire ai famigerati protocolli e alle cogenti circolari. Quelle che raccomandavano di non eseguire autopsie su deceduti sospetti e di cremarli subito. Senza nemmeno l’incenso e l’acqua santa. Avremmo anche dovuto abolire ogni protocollo per i medici di famiglia, in sede di prima visita ai pazienti con sintomi lievissimi, compatibili anche con altre patologie. Dovevano essere loro, i medici di famiglia e la rete sanitaria territoriale – se non fosse stata progressivamente smantellata- sulla base di visite domiciliari da svolgersi in presenza, a stabilire se il paziente necessitava davvero di tampone, di ricovero ospedaliero, o semplicemente di restare a casa con terapia farmacologica, monitorato con un saturimetro che costa trenta euro in ogni farmacia.

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I medici di base dovevano -e dovrebbero ancora- essere liberi -in scienza e coscienza- di valutare le condizioni dei loro pazienti senza rischiare un procedimento dell’ordine o peggio anche penale, solo per aver disatteso il protocollo, che magari prevede diagnosi telefonica a fronte di una febbre modestissima e invio del malcapitato al triage per il tampone, o peggio ancora al pronto soccorso per il ricovero, con conseguente intasamento delle strutture ospedaliere e rischio di ulteriore diffusione del contagio. In ospedale, poi, per fare cosa? Salvi i casi di necessità di terapia intensiva in cui la maggior parte dei pazienti finiscono intubati, in quasi tutti gli altri casi, i ricoverati sono semplicemente assistiti con terapia farmacologica, ossigeno all’occorrenza e cure che potrebbero forse ricevere finanche a casa loro. Se solo ci fosse chi risponde ad un telefono che squilla dietro una chiamata disperata e un medico o persino un esperto operatore sanitario che si recasse a domicilio a controllare, visionare, rassicurare, monitorare.

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Invece no. Il terrorismo mediatico, diffuso a piene mani all’inizio di questa seconda ondata, che ha imputato inutilmente agli eccessi gaudenti dell’estate italiana, la ripresa dei contagi -come se i tedeschi, restii ad assembrarsi per natura o i popoli nordici dove sono effettivamente quattro gatti, avessero evitato il ritorno del morbo stando accorti, e non stessero combinati uguali a noi o persino peggio- ha provocato nella stragrande maggioranza dei casi, l’assalto agli ospedali da parte di tanti asintomatici o paucisintomatici che -per fortuna- non moriranno mai di COVID e forse nemmeno ci andranno un po’ vicini. Alla morte intendo. Per fortuna loro e nostra. Toglieranno -se non stanno già togliendo- semplicemente il posto a chi ha bisogno di quel letto nel reparto per altre patologie o per un ricovero da tempo programmato. Non riceveranno nessuna cura per il COVID che non potessero ottenere a casa loro, opportunamente assistiti almeno un paio di volte a settimana da un medico che avrebbe potuto visitarli a domicilio. Se fossimo stati un paese un po’ più serio.

C’è poi la drammatica situazione delle scuole, l’altro argomento che appassiona e divide la nazione come lo fece il referendum sul divorzio o una finale di calcio al campionato. La scuola dell’infanzia e quella che un tempo si chiamava scuola elementare e che ora, credo, si chiami primaria di primo grado, dovrebbero sempre svolgersi in presenza, ma talmente sempre, che l’insegnante, il dirigente scolastico, o il ministro che solo ipotizzassero la didattica a distanza per questo ciclo di istruzione, dovrebbero essere messi alla gogna sulla pubblica piazza e insultati dai bambini che stanno torturando con la DAD. Per gli altri cicli dell’istruzione obbligatoria e per i corsi universitari, va bene pure la didattica a distanza, senza dimenticare che in metà paese, a novembre, ci sono ancora giorni di sole con diciotto/venti gradi e si potrebbe tranquillamente istituzionalizzare lezioni in presenza all’aperto e distanziati, se solo esistesse ancora la libertà d’insegnamento, che con ogni evidenza dovrebbe estendersi ai modi e persino ai luoghi in cui si svolge la lezione. Da una pineta al lungomare.

Nessun’altra chiusura o restrizione andrebbe disposta per ristoranti e bar, a cui si può solo chiedere, invece, di prolungare gli orari di apertura e contingentare il numero di avventori presenti contemporaneamente, come del resto stava già avvenendo in tutti gli esercizi pubblici. Nessuna chiusura per esercizi commerciali di vendita al dettaglio, solo rispetto delle norme igieniche, cui persino i più riottosi oramai sembrano attenersi. Nessuna chiusura per cinema e teatri in cui già vanno sovente quattro gatti distanziati dai posti e sempre con le maschere. Dal palcoscenico alla platea deserta. Nessun coprifuoco a una cert’ora, perché il virus viaggia tutto il giorno, sui mezzi pubblici e in giro nelle grandi città, negli uffici, pubblici e privati, nelle aziende produttive, nelle catene di montaggio, fra i corrieri espressi, nei campi e nelle serre, nei supermercati e dai dentisti. Senza orari. Corre e basta. E per fermarlo del tutto, forse occorrerebbe davvero rinchiuderci di nuovo, tutti dentro fino a maggio. Ma nessuno può permetterselo. Anche perché a maggio non ci sarebbe più nulla o molto poco da riaprire.

Allora non ci voglio pensare a un altro lock down. Nè parziale nè totale. Magari ci sarà. Dicono, a breve. Per me non si può fare. Tacciano gli epidemiologi dell’una e l’altra scuola. Loro possono solo consigliare. Bisognerebbe invece che dicessero ciò che si può fare per convivere col virus. Riaprire cinema, teatri, le palestre e le piscine. Consentire ai ragazzi di fare qualche tiro a basket. Corsa e movimento. E magari stare attenti. Andarci in pochi. Negli orari più diversi. Anche alle 22.00 se serve a incontrare meno gente. Praticamente il contrario di quello che si sta facendo. Prolungare tutte le aperture, per diluire gli avventori. Bisognerebbe poi aumentare, almeno duplicando, le corse dei mezzi pubblici, autobus, metropolitane, funicolari, tram e filobus, creare convenzioni convenienti con i taxi. Insomma favorire la mobilità senza accalcarsi. E poi, giusto il contrario di ciò che si sta facendo tentando in ogni modo di disincentivare le uscite dei giovanissimi. È ai settantenni che bisognerebbe suggerire di non di andare fuori finanche a far la spesa, recapitandogliela a casa col garzone. Sono i soggetti a rischio che bisognerebbe proteggere a prescindere, creando intorno a loro un filtro di protezione da altri anziani, dai bambini, dai ragazzi e dai più giovani che sono spesso portatori inconsapevoli e soventi asintomatici del virus.

Insomma un sistema di convivenza prolungata con il virus curando a casa il più possibile, ricoverando solo i casi più gravi, evitando l’isteria di tamponi di massa che oramai, per il livello di diffusione che ha raggiunto il virus, sembrano non servire proprio a nulla, perché se anche oggi si risultasse negativi, non rimanendo in casa pressoché isolati da domani, nulla impedirebbe di diventare positivi il giorno dopo. Siamo seri. Conteremo ancora molti morti. Li conteremo indipendentemente da ciò che possiamo fare oggi. Certo, non sarebbe saggio buttarsi nel contagio a capofitto. Il virus è infido e se possibile faremmo meglio ad evitarlo. A nessuno giovane o anziano piace sentirsi i polmoni intrappolati e boccheggiare mendicando l’aria. Nessuno lo vorrebbe. Per quanto dipende da noi. Ma il mondo deve andare avanti, e continuerà a giare su se stesso e intorno al sole. Con noi o senza di noi. Possiamo anche provare a fermarci a questo giro. Stare a casa. Oppure uscire. Sarà ancora sera e poi mattina. E poi passeranno i mesi e le stagioni. E in men che non si dica sarà di nuovo primavera. Con noi o senza di noi.

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