LE OPINIONI

IL COMMENTO Il Festival tra guelfi e ghibellini

DI ANTIMO PUCA

Ma come! Non seguite il Festival di San Remo? Beh, basta leggere i quotidiani. I web post pre e dopo Festival sono divisi tra guelfi e ghibellini. Poi c’è chi, sul festival firma del firmamento ultra contemporaneo non si era mai soffermato. Ma che, da telespettatore onnivoro, lo ha scoperto. Ebbene sì, la tv non è un demone maledetto che imbarbarisce e basta. Ma può diventare uno strumento di conoscenza attraverso la promozione. Il festival sembra tessere una raccolta di interventi sul degrado sociale, civile ed etico dell’Italia di oggi. “Son periodi difficili per la “cultura” di questi tempi. Stiamo vivendo una sorta di “oscurantismo culturale” che sta facendo precipitare la nostra società in derive inquietanti. Eppure la cultura non è argomento da sottovalutare, e nemmeno da minimizzare, perchè da essa dipende l’emancipazione sociale di un popolo. Purtroppo, proprio chi è preposto, a livello istituzionale, a promuovere, sostenere e preservare la cultura, pecca di latitanza, o ancor peggio di superficialità. Anzi, in taluni casi sono proprio le istituzioni ad essere artefici del degrado culturale che ci pervade in questo periodo”. Franco Battiato. E’ andata in crisi, prima di parlare di problemi etico-politiici, una virtù fondamentale, che il vecchio Kant considerava la base: il rispetto. Parodie aggressive fatte in modo fazioso per ridicolizzare sono studiate da efficienti uffici di propaganda per dargli un valore. Presentarsi su un proscenio proiettato in mondo visione “in mutande” è un’inqualificabile mancanza di riguardo e di rispetto, che si trascina anche su tutto il resto. Il rispetto formale non è mai solo formale. C’è una rottura tra il significato delle parole e il loro significante. Dall’astrazione alla realtà si è rotto qualcosa. Tutto andrebbe nominato in modo corretto. Si è rotto il peso delle parole, il fatto che quando si dice una cosa, soprattutto pubblicamente, non si può, il giorno dopo, smentirla con i fatti. Non per seriosità, perché la vita è fatta per godersela. Ma questo è possibile soltanto in un clima di reciproco rispetto. Mi scaglio contro la parodia della democrazia, le campagne che combattono in Italia le finte repressioni anziché quelle vere. Non occorre aver studiato il latino per sapere che il soggetto va il nominativo e il complemento oggetto all’accusativo, se no non si capisce chi ruba e chi è derubato e si finisce per mettere in galera chi è derubato.

Le parole hanno una storia in ognuno di noi e possono, d’improvviso, cambiare di significato. Amore, ad esempio, può evocare felicità e di colpo, per qualche inatteso terremoto del cuore, diventare sinonimo di dolore o disgusto. Sino a qualche anno fa il festival non era solo uno spettacolo ricco di particolari echi ma evocava, con qualche passione, la vittoria. Chi banalmente pensasse a una bigotteria clericale sbaglierebbe di grosso, perché la mentalità dominante nella direzione del Festival è profondamente laicista, anticlericale. Il Festival si evolve a simbolo dell’assurdità di tanti divieti. Mentre avremmo bisogno di molti altri, meno imbecilli e ben più necessari. Si leggono le solite diatribe tra apocalittici e integrati, quelli che il Festival manco morto e chi comprende che non è più come ai tempi di Baudo. La società e le subculture giovanili sono entrate prepotentemente in scena tra monologhi delle presentatrici e strappi di un trapper dipinto. Ma non solo. Un volume assurdo di canzoni, chiacchiere, abiti, trasmissioni collegate, radio, interviste che si rincorrono senza sosta a ritmi che non consentono di sedimentare. Solo like veloci, freddure istantanee e commenti a pelle a brani non assaporati né spesso approfonditi: un unico, insaziabile, compulsivo scroll. 

Resta il miracolo annuale di un’ondata di nuove canzoni, tutte assieme negli stessi giorni. Alcune belle, altre promettenti. Le più dimenticate presto. Poche rimarranno in voga per settimane e mesi, adattandosi ai dettami di Darwin. Oggi valutiamo ciò che perdura nel tempo, ma tutte e tutti a febbraio hanno voglia di nuove parole, di suoni strani, di orchestre magnifiche; e di diventare scemi per una sola canzone, per “cinque giorni” (Zarrillo). 

Che vuol dire tutto questo? Che il conduttore di turno del Festival di Sanremo più visto e “colto” degli ultimi anni, è ormai il nostro spacciatore di nozionismo moderno, il Mecenate dei giorni nostri che detta l’agenda setting di ciò che dobbiamo sapere e conoscere.

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Il presentatore di turno, insomma, ci fa fare una cultura al punto da non farci sentire in imbarazzo se abbiamo o meno conoscenza di un qualcosa o ne abbiamo sentito parlare. Oggi come oggi neanche un editore ha lo stesso potere. Persino Pasolini se ne compiacerebbe. Si sciolgono i salotti, rarefatti i gruppi d’ascolto, prima o poi partirà il countdown verso Sanremo 2024: che sarà vinto da un pezzo scritto da Davide Petrella e Dardust, utilizzando ChatGPT e l’intelligenza artificiale.

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