LE OPINIONI

IL COMMENTO Il ritorno di Masaniello

Lunedì, 29 giugno, è ricorso il quattrocentesimo anniversario della nascita di Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello. Ma questa ricorrenza non va annoverata come un anniversario da commentare quale importante parentesi storica. L’evocazione o, meglio, la rievocazione di Masaniello e del movimento popolare che portò il pescivendolo-contrabbandiere a capeggiare la rivolta di popolo contro l’eccessiva pressione gabellare (adesso si dice “pressione fiscale”) assume una valenza del tutto particolare, nell’epoca attuale del “populismo anti istituzionale. Ma la rivolta popolare napoletana del 1647 era anti istituzionale? No! Lo dimostra il fatto che il motto di Masaniello e dei rivoltosi era: “Viva ‘o Re ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno”. Era piuttosto una rivolta di classe, contro i privilegi nobiliari di casta. La prima rivendicazione che i popolani fecero, con l’irruzione nella Reggia del vice re spagnolo Rodrigo Ponce de Leo, fu quella di ripristinare un privilegio voluto da Carlo V nel 1517 e cioè che il popolo dovesse avere una rappresentanza uguale a quella dei nobili e che dovesse esserci una perequazione delle tasse tra le diverse classi sociali. Oggi, a capeggiare le tensioni antistataliste ed antieuropeiste sono non i ribelli di popolo, ma gli stessi Sindaci, Governatori regionali, capi partito, che decidono di interpretare, manovrare e aizzare gli istinti (anche più bassi) di quegli strati popolari che, per vari motivi, sono esasperati ed emarginati. Sindaci, Governatori, capipartito che svolgono il ruolo di “demagoghi” nel senso letterale (e non sempre negativo) del termine. Della esperienza della rivoluzione di popolo che portò i rivoltosi al governo della città per 10 giorni, dal 7 al 16 luglio 1647, sono stati scritti saggi storici, dipinti quadri, scolpito sculture, ma soprattutto realizzate opere teatrali, una delle quali (la più bella) fu rappresentata anche ad Ischia negli anni 70.

Già nel 1963, il grande Eduardo De Filippo aveva inscenato “Tommaso d’Amalfi”, interpretato da Domenico Modugno (che scrisse anche le musiche), da Giustino Durano, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Ma il lavoro non riscosse un grande successo. Nel 1974, Armando Pugliese ed Elvio Porta crearono la più bella interpretazione teatrale dell’evento storico, con le bellissime ballate e le canzoni di Roberto De Simone. Masaniello fu interpretato magnificamente da Mariano Rigillo ma c’era anche una freschissima Lina Sastri e una magistrale Angela Pagano. Ho ancora sotto gli occhi quel magnifico spettacolo teatrale dove gli spettatori diventavano popolo attivo e partecipavano ad un continuo movimento di enormi carrelli per il cambio scena. Di questo spettacolo, di cui Ischia beneficiò, ci furono circa 300 recite in Italia e in Europa. Naturalmente non poteva non essere rappresentata anche nella Piazza Mercato di Napoli, che era stato il centro, il focolaio dei moti del 1647. L’ultima recita avvenne sulla banchina del Porto di Genova nel 1977. Allora non si poteva sapere che, a distanza di anni, quella città sarebbe rimasta vittima di un’alluvione disastroso e poi di un altrettanto disastroso crollo di un ponte, che hanno risvegliato forti reazioni popolari contro responsabili politici ed industriali. Nel 1998, anche il regista teatrale Tato Russo volle cimentarsi, con un musical, in un kolossal teatrale. Fino ad arrivare ai giorni nostri (2019) quando al Sannazzaro di Napoli la regista Lara Sansone ha riproposto l’opera, affidando a Leopoldo Mastelloni il ruolo di Masaniello.

Molto interessante è risultata, in questi giorni, un’intervista del Corriere della Sera alla professoressa di Storia Moderna Vittoria Fiorelli, dell’Università Suor Orsola Benincasa. La professoressa sostiene che quella delle 10 giornate di Napoli costituisce una reazione “astorica” cioè non storicamente contestualizzata, contro la prima manifestazione di globalizzazione, rappresentata dall’impero ispanico, che mise i napoletani di fronte all’incognita e alle conseguenze del “diverso da sé e dalla propria identità di popolo”. Inoltre la professoressa Fiorelli contesta l’origine plebea della rivolta che ella preferisce attribuire ad una “aristocrazia civile”. A ribellarsi, insomma, non furono i ceti più bassi ma i ceti dei cosiddetti “Seggi” di Napoli ovvero i professionisti, gli avvocati, i medici, gli intellettuali. Era una “ pre-borghesia” senza l’elemento imprenditoriale. Fermiamoci qui con i riferimenti storici e teatrali e affrontiamo quello che oggi è il “populismo”, quello che oggi è l’interpretazione della figura di capopopolo alla Masaniello. Non si dice più “Viva il re” anzi il primo totem da abbattere è proprio lo Stato, raffigurato dal Primo Ministro. Non si richiede più una equa distribuzione di tasse e gabelle, ma – sic et simpliciter – si contesta la ratio stessa delle tasse e di ogni limite alla libertà economica ed individuale. Chi dà uno sguardo ai social, trova innumerevoli riferimenti ad una presunta negazione della libertà individuale per l’obbligo di non superare i 2.000 euro per i pagamenti in contanti. La maggior parte dei professionisti si allinea agli strati popolari non per guidarne una rivolta democratica, come avvenne nel 1647, ma per rivendicare la stessa copertura, lo stesso ombrello protezionistico anti crisi Covid, per qualche centinaio di euro mensili. E i ceti intellettuali si limitano ad invocare più spazi, più aule e più insegnanti per le scuole (a prescindere dai programmi e dalla interazione scuola-società). Quanto agli industriali, che furono ai margini nel 1647, oggi (soprattutto con l’attuale vertice di Confindustria) non sono affatto ai margini, ma sono schierati in prima linea “contro” il Governo e contro i Sindacati, accusati di condizionare negativamente il Governo. I Sindaci, i Governatori di Regioni, i capi partito, dal canto loro, sembrano impegnati in una lotta continua: Città contro Regione, Regione contro altra Regione, Regioni e Sindaci contro il Governo. Se Napoli del 1647 fu investita dalle conseguenze della prima globalizzazione ad opera dell’espansionismo spagnolo, l’Italia e le città italiane come Napoli ma anche le realtà minori e a forte caratterizzazione turistica, come Ischia, Capri, Sorrento, accusano il colpo della più grande e grave globalizzazione fin qui registrata: la pandemia, che sta contando milioni di contagiati nel mondo e sta stravolgendo abitudini,modi di vivere, scelte strategiche.

Come dal 1647, del corpo di Masaniello si fece di tutto: ammazzato, decapitato, ricomposto, fatto sparire da Ferdinando IV e poi sacralizzato, trasformato in icona, in riferimento per ogni rivendicazione e ribellismo popolare, così nell’attuale situazione politico-sociale si sta facendo di tutto del “corpo istituzionale democratico e di ogni forma di intermediazione sociale”. Non conta più il Parlamento ma i social. Non contano le Assemblee legislative regionali né i consigli comunali, ma contano esclusivamente Governatori e Sindaci, ai quali unici si riferiscono i cittadini, non per stima né per fiducia ma perché costituiscono un’utile scorciatoia nella risoluzione di problemi individuali e di nessuna portata generale. Anche i Sindaci isolani hanno imboccato spesso questa strada, nel tentativo di “agganciare” direttamente il “popolo”, disdegnando partiti, altre istituzioni, forme di consultazione e partecipazione di rappresentanze sociali e “intermediari”. Se ne fregano dei partiti, spesso spostano il peso delle responsabilità politiche ai livelli più alti e sapete perché? Perché i cittadini (quelli maggiormente compromessi col potere locale) non hanno perplessità a mettersi contro istituzioni “lontane” dal centro di interessi personali, mentre le hanno per gli amministratori da cui più direttamente dipendono. I Sindaci spesso vanno in contrasto con Prefetto, Commissari di Governo, mentre vanno a nozze con forze di polizia locale, Guardia Costiera, rappresentanti della Soprintendenza che operano ad Ischia e perfino con Poste Italiane locale, perché è loro interesse non creare contrasti “sul posto” dove devono regnare indisturbati i rapporti di convenienza e reciprocità .Tornando al confronto storico: se – ad un certo punto – Masaniello impazzì, molti dei nostri moderni capi popolo (che sono paradossalmente anche capi istituzioni o partiti) non sono molto lontani dall’impazzimento. E se grandi registi ed attori teatrali, dal 1963 fino al 2019, hanno inscenato la vicenda di Masaniello, i nostri attuali capipopolo non vanno oltre una azzeccata caricatura del comico-imitatore Crozza. A ognuno il suo destino!

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