LE OPINIONI

IL COMMENTO La lezione e il “testamento” di Aldo Moro

DI ANTIMO PUCA

«Il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». A. Moro. 

Diversi contributi hanno restituito alcuni tratti del profilo umano di Moro, uomo schivo e riservato, e nondimeno attento alle nuove forme della comunicazione politica, come le tribune televisive che proprio allora esordivano. Aveva ventotto anni quando pronunciò queste parole, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società».

Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. «Compromesso storico» e «convergenze parallele» sono alcuni dei termini utilizzati dallo stesso Moro per identificare la propria politica di integrazione e dialogo tra le frange opposte della politica italiana per creare una sinergia comune, in particolare tra comunisti e socialisti. Al segretario della Democrazia cristiana, all’epoca il più grande partito politico, venne attribuita la colpa di voler perseguire con tenacia il progetto di inclusione dei comunisti nell’area di governo. Con il superamento di quella che un fine giurista, come Leopoldo Elia, definì nella voce forme di Governo dell’Enciclopedia del Diritto, con la felice espressione di Conventio ad excludendum. Una convenzione costituzionale frutto di un accordo tra le forze politiche che prevedeva il taglio delle ali estreme, con l’estromissione dall’area di governo del partito comunista e del movimento sociale italiano. Il compromesso storico, su cui Aldo Moro avrebbe voluto costruire future coalizioni tra DC e PCI, avrebbe offerto al partito comunista una occasione per riabilitarsi durante il periodo della guerra fredda. L’idea di Aldo Moro era di traghettare il sistema istituzionale italiano nel dopo guerra fredda. La fine della conventio ad excludendum avrebbe consentito un allargamento dell’area di governo, siglando un patto tra cattolici e sinistra. «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo». A. Moro

Il Paese sente la mancanza delle grande fucine di personale politico, contesti altamente formativi capaci di creare classe dirigente, com’erano per esempio il Pci e lo stesso associazionismo cattolico. I leader che uscivano da queste scuole erano preparati e di solida cultura politica. Questo oggi manca. Mi viene in mente l’ultimo discorso di Moro da persona libera, il 28 febbraio 1978. Doveva trascinare l’intero gruppo parlamentare della Dc ad accettare una maggioranza condivisa per la prima volta con il Pci. Non sapeva neppure se intervenire. Alla fine accettò di parlare. Partì non dalle dinamiche di Palazzo, ma da quella che chiamava «l’emergenza reale che è nella nostra società», la realtà. «Io credo alla emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale. Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale. C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo…». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana…». Credo che questa sia l’eredità principale di Moro. La più tradita. Il metodo del dialogo e dell’ascolto. L’intelligenza che è il contrario delle forzature, i bracci di ferro, gli scontri, il linguaggio bellico di cui abusa la politica di oggi, nel «Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» che resta una delle definizioni più belle del nostro sistema democratico.

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Scriveva a Misasi «datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò comunque perdente». Colpisce come un uomo, in bilico tra la vita e la morte, proprio lui, “l’equilibrista” della politica, riesca a mettere insieme ‘verità’ e ‘voti’ in una stessa frase. Moro resta “punto irriducibile di contestazione e di alternativa”, come si era definito in una lettera, e ci racconta quanto “un atomo di verità” possa essere ancora vivo in tutti noi.

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