LE OPINIONI

IL COMMENTO Vi racconto chi era don Vincenzo Avallone

DI GIUSEPPE VARLETTA

Mio zio, don Vincenzo Avallone, era un fuoriclasse, uno che stava parecchie spanne sopra tutti noi ma, allo stesso tempo, in mezzo a noi, con quella sua capacità di entrare in sintonia con l’altro, quella sintonia emotiva o empatia che è “stare nei panni dell’altro e sentire quello che l’altro sente”, così come ebbe a scrivere in un suo recente articolo dopo aver studiato il tema leggendo Edith Stein e tanti altri Autori. Sicuramente era il suo essere terziario francescano a venir fuori quando si relazionava con l’altro.

Mio zio era uno che leggeva e studiava, e parecchio! Questa cosa gliel’avevano insegnata i Padri Gesuiti. Chi è stato a casa sua a Panza avrà avuto modo di vedere che la tavola della cucina, di 2 metri per 1 metro, era ricoperta da pile di libri e che non c’era lo spazio per poggiarvi un solo piatto. Le prediche che teneva erano frutto di uno studio profondo e appassionato della Parola di Dio. Il suo cercare di capire, dare un senso alle cose – e intendo tutte le cose, non solo quelle di Dio – individuare il nocciolo badando alla sostanza, è una caratteristica che mi ha sempre colpito, che mi faceva sentire piccolo piccolo e che io, ho cercato – con scarsi risultati direi – di imitare da quando ho cominciato a vivere consapevolmente.

Devo ammettere che mio zio, zio prete come abbiamo cominciato a chiamarlo dopo la nascita della nostra prima nipote Rosa per distinguerlo da mio fratello Vincenzo, era il mio salvacondotto. Bastava che io dichiarassi al mio interlocutore di essere suo nipote perché mi si spalancassero porte e portoni. Vi racconto un piccolo aneddoto, ma ne avrei a decine. Un giorno di circa 20 anni fa, era stato a Napoli e sul mezzo di ritorno aveva attaccato bottone con due giovani ragazze inglesi. All’arrivo, si era offerto di accompagnarle con la sua macchina in un albergo al Cuotto e poi, come faceva tutti i giorni da sempre, era venuto a pranzo a casa nostra, a Forio. Ci parlò del fatto, mi disse che io dovevo incontrarle e tanto fece che mi convinse a telefonare in albergo per rintracciarle e organizzare un’uscita.  Telefonai chiedendo di poter parlare con loro. Ebbene, il Direttore che ovviamente lo conosceva benissimo mi disse: “Senti, noi non siamo soliti fare queste operazioni, ma visto che sei il nipote di don Vincenzo, te le vado a chiamare”.

Mio zio aveva un grande senso dell’umorismo. Una decina di anni fa circa, quando Ischia cominciò ad essere meta di turisti russi, decise di impararne la lingua. Così, dall’oggi al domani. Si procurò un dizionario, l’alfabeto cirillico e alcuni quotidiani in lingua. Andava alla ricerca di badanti russe o ucraine e faceva visita alle persone da queste accudite anche per avere la possibilità di carpire da loro un accento, una pronunzia, un modo di dire. Ebbene, noi lo prendevamo in giro, accusandolo di avere un secondo fine, quello di volersi trovare una “cummara”. Lui ovviamente stava al gioco e sorrideva, con la bocca chiusa, così come facciamo noi, intendo noi, della sua famiglia. Altre volte doveva sopportare i nostri sfottò per il suo modo di guidare la macchina, con quella posa un po’ distesa sul sedile e inclinata su di un lato, spesso con la ruota dell’auto al di là della striscia bianca di mezzeria. A tavola era una valanga di detti della Scuola Medica Salernitana – ricordo “unica nuxprodest, nocet altera, tertiamors est”, di proverbi tipo “post lacvinum, divinum; post vinumlac, testamentumfac”oppure di terzine dantesche, di versi di poesie (preferiva Pascoli) e tanto altro.

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Ha vissuto cercando di imitare suo zio omonimo e parroco e ne elogiava sempre le sue capacità oratorie. Per inciso, credo che la decisione di lasciare Casamicciola dopo 42 anni e di “ritirarsi” nella sua Panza gli sia derivata da questo suo desiderio di emularlo, perché anche suo zio, in vecchiaia, era ritornato a Panza. Aveva grande rispetto dei suoi genitori, Aniello e Genoveffa, e ricordava sempre suo fratello Giovanni, morto prematuramente, additandocelo come esempio di uomo giusto. Negli anni novanta diede vita alla prima Scuola Vocazionale dell’isola. E anche in questo riconosco il desiderio di imitare un suo illustre predecessore che tanto ha fatto per i giovani di Casamicciola e che lui tanto amava: il venerabile parroco Giuseppe Morgera. Con tanti volontari avevo messo in piedi questa cosa, con tanto di pranzo, di studio e di gioco post studio. I ragazzini coinvolti giocavano al pallone, davanti alla sala, proprio a fianco al giardino dove coltivava le sue verdure, e Dio solo sa quanti danni essi procurarono alle sue colture e quante parole non disse pur di vederli gioire. Sì, era un prete contadino, uno che ha sempre predicato quella necessità di amare e coltivare la terra, evidentemente precorrendo i tempi.

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Era amante dell’Inghilterra e della sua lingua che, come saprete, aveva imparato da autodidatta. Da giovane aveva vinto un soggiorno a Londra partecipando ad un concorso radiofonico della BBC. Era poi entrato in contatto con una comunità anglicana di Londra, St. Luke’sparishchurch, e quando poteva, alla domenica, seguiva i religiousservices trasmessi dalla BBC. Aveva un grande senso dell’ecumenismo. Con il suo amico pastore anglicano Leonard e sua moglie Olivia aveva fatto diversi viaggi, ricordo quello in Sicilia e quello in Val d’Aosta. Ne conserviamo ancora le foto. Comprò anche un’automobile inglese, la Rover. Gli piaceva proprio l’Inghilterra.

Era un appassionato della radio e non sopportava la televisione. Ricordo di averlo fatto felice quando gli procurai una radio, facendola arrivare dalla Cina, la Degen 1103, con cui riusciva a sintonizzarsi con molte stazioni di tutto il mondo. Montammo insieme una sorta di antenna, praticamente un filo di rame che dalla sua cucina saliva fin sulla sua “macchia” di terra, per migliorarne le capacità ricettive. Non era capace di gestire il denaro, o meglio, non lo voleva fare; perciò la sua contabilità, quella importante, la affidava totalmente al suo amico e collega don Pasqualino della Sentinella e, quella spicciola, a Ntunett (una delle sue perpetue storiche, le altre erano Ziett e Agnes). Si impegnava moltissimo nella sua parrocchia: ricordo le prime Comunioni, la festa della Maddalena, le Quarantore, il Corpus Domini, la Madonna di notte, la Banda della Città di Panza, le pizze offerte ai musicanti e ancora, i lavori di ristrutturazione, i lavori per il nuovo impianto elettrico, per la pavimentazione. E Casamicciola rispondeva sempre alle sue richieste di denaro, quando andava in giro per la questua insieme con i suoi amici e collaboratori.

Già da diversi anni aveva cominciato a pubblicare degli articoli su Il Golfo e sul bollettino diocesano Kaire, spesso trattando temi – a mio avviso – molto attuali. Diceva per sentirsi vivo, ma io voglio credere che molti di questi articoli li scrivesse per me, e mi riferisco a quelli relativi all’educazione, alla famiglia, a quella che oggi viene chiamata “emergenza educativa”.  Per me, per me che sono padre di due bambine piccole e insegnante, quindi educatore, prima di tutto. E mi regalava anche dei libri. Tante volte poi mi portava quel suo registratore a cassette in cui aveva registrato per me interessanti interventi, ascoltati alla radio, di professori, sociologi, etc – per me – perché capissi, migliorassi, crescessi come uomo ed educatore.

Vorrei concludere con le parole di Bessie Anderson Stanley, una scrittrice americana che vinse un concorso proprio presentando questo lavoro. Mio zio me lo fece leggere un po’ di tempo fa, stava scrivendo una recensione del libro in cui l’aveva trovata e mi è parso davvero appropriata e adatta a lui – anche se comincia con le parole “ha avuto successo”- tanto da scriverla sul retro della prece che distribuiremo alla messa di trigesimo.

Ha avuto successo colui che ha vissuto bene, ha riso spesso e amato molto.
Chi si è guadagnato la fiducia e l’ammirazione di persone intelligenti
e l’amore di bambini piccoli;
chi ha trovato il proprio posto e ha portato a termine il proprio compito;
chi ha saputo apprezzare la bellezza della Terra
e non ha mai mancato occasione di esprimerla;
chi ha lasciato il mondo meglio di come l’ha trovato,
grazie ai fiori che ha coltivato, a una poesia completata, a un’anima salvata.
Chi ha cercato sempre il meglio negli altri e ha dato loro il meglio di sé;
colui la cui vita è stata una fonte di ispirazione,
il cui ricordo una benedizione.

* DOCENTE E NIPOTE DI DON VINCENZO AVALLONE

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