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“Libera”, Di Mauro: «Dal sangue innocente deve nascere nuova vita»

Gianluca Castagna | IschiaLuciana Di Mauro è la vedova di Gaetano Montanino, una guardia giurata morta a 45 anni, vittima innocente della camorra. A suo marito è stato intitolata una sede isolana di ‘Libera’, presidio di legalità nel comune di Lacco Ameno.
Nelle loro esperienze, anche storiche, le mafie sono state sempre sorrette da un tessuto sociale che ha fornito loro approvazione e sostegno. Quanto conta sensibilizzare le giovani generazioni nella prevenzione di una comunità omertosa o addirittura complice?
«E’ fondamentale partire dai giovani. Io lavoro nel quartiere dove è stato ammazzato mio marito, in Piazza del Carmine, a Napoli. Dove i bambini di sette anni vanno a scuola con il coltello. Al termine di una mia testimonianza, uno di loro è venuto ad abbracciarmi. Mi ha lasciato un messaggio: sull’onore di Gaetano Montanino, non entrerò mai nella camorra. Era il nipote del boss mandante dell’omicidio di mio marito. Dobbiamo riscoprire la necessità di far riflettere i più giovani anche sull’attività dei genitori, su quello che vedono in casa. Tutti, fin da piccoli, possiamo scegliere da che parte stare, cosa è giusto e cosa non lo è. I giovani possono fare tanto e di più. Oltre gli orizzonti della malavita».
Molti ritengono che questo Paese non meriti chi sacrifica la propria vita nella lotta contro le mafie o nella ricerca di una verità che buona parte dello Stato sembra non volere. Come riesce a dare un senso alla solitudine o ai tentativi di delegittimazione verso chi ha scelto comunque di impegnarsi?
«C’è molta sfiducia, in effetti. Dopo tante promesse, si rimane nel buio più assoluto. Il paradosso è che spesso tocca a noi dimostrare che la vittima sia innocente. Questo Stato ti abbandona, è come se ti uccidesse una seconda volta. Da questo abbandono nasce un’indignazione profonda che ci permette di reagire, di costruire qualcosa di buono perché queste vittime non siano morte invano. Questo dolore che abbiamo provato noi deve essere causato ad altri».
Nella sua attività per Libera c’è lo spazio per la paura?
«In un primo momento ero terrorizzata. Non andavo nemmeno più a Napoli, poi ho cominciato ad accompagnare mia figlia all’Università e ho capito che la paura frena l’entusiasmo, la mia voglia di giustizia. La combatto agendo, provando a non pensarci. Nella piazza dove è stato uccido mio marito c’è ancora una lapide, che viene vandalizzata un giorno sì e un giorno no. E’ difficile tenere accesa la memoria in una città come Napoli. Esiste anche il disprezzo per le cose che ricordano le vittime innocenti delle mafie. Con tenacia, forza, nascondendo la paura, ora vado anche lì. Nelle scuole, in quella piazza, davanti alla lapide di mio marito. Non mollo».
Lei ha cominciato un percorso di riconciliazione con i responsabili della morte di suo marito. Qual è il sentimento che la guida?
«Mi sono sentita in qualche modo responsabile. Da quel sangue innocente doveva rinascere una nuova vita e una possibilità di riscatto per chi aveva sbagliato. Uno di questi ragazzi me lo ha chiesto, di voler cambiare vita. Io devo fare la mia parte. Difficile, complicata, ma lo devo a mio marito, al suo sangue da cui deve nascere qualcosa di buono. Rifiutare il mio aiuto sarebbe stato diventare complice di un ritorno di questo ragazzi nel mondo della malavita. Non lo potevo permettere, a me stessa e alla memoria di Gaetano Montanino».

 

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