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LETTERE ALLO PSICOANALISTA

Quest’oggi, piuttosto che rispondere diffusamente a un solo di voi lettori, ho preferito concedere spazio a due lettere e, dunque, trattare più sinteticamente i rispettivi argomenti toccati, ciascuno dei quali riveste un notevole interesse psicologico.

 

         Gentile Professore,

sono un giovane laureato in cerca di lavoro. Vedo davanti a me una vita incerta e confusa, che forse mi costringerà a emigrare lontano da qui, come molti altri miei amici e coetanei.

Passo per essere una persona sensibile e riflessiva, ma dentro di me non mi sento affatto sicuro che questo sia un gran vantaggio: mi chiedo spesso se valga la pena arrovellarmi sulle cose che mi succedono, dato che, alla fine, tutto questo pensare non sembra dare grandi risultati: anzi, rende ogni cosa pesante e complessa, quando poi il mondo intorno a me non migliora affatto.     

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Io vorrei tanto essere più istintivo, più immediato, e non starmi a preoccupare costantemente del perché sì e del perché no di quello che mi accade e di quello che faccio: solo che, purtroppo, non ci riesco. Allora, mi sembra di essere prigioniero di me stesso e desidererei tanto essere libero.

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Lei che ne pensa?

 

LA COSCIENZA FA BENE?

 

Gentile lettore,

è raro che in terapia i miei pazienti, a un certo punto del percorso, non finiscano col dirmi quello che lei confessa, lamentandosi che il lavoro analitico sembra appesantire la loro esistenza piuttosto che renderla più snella e leggera.

Io mi rendo conto che quel momento rappresenta uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo” per la Coscienza dell’analizzato/a, poiché quella fatica accompagna l’inizio di una maggiore autonomia dell’Io rispetto all’inerzia del procedere inconscio. Quest’ultimo, lasciato spadroneggiare senza che sia presente nel soggetto una dialettica con la Coscienza, lo assoggetta, lo ingabbia e lo possiede, rendendolo elemento privo di libertà di scelta e di creatività personale.

Spesso i discorsi di questa fase del lavoro psicologico evocano un paradisiaco stato naturale, che è un inganno della mente, dato che la vita naturale – per esempio quella degli animali – non è affatto priva di dolore, ma anzi pervasa di paure, di terrori, di bisogni torturanti ai quali l’individuo e il suo branco non sempre sanno e possono trovare soluzione, e che sovente li conducono alla morte. Per alcuni filosofi, come Martin Heidegger (1889 – 1976), la natura è mancanza, non pienezza, e l’essere umano con il suo continuo sforzo linguistico e l’evolversi della coscienza tende a esprimere e superare questa ancestrale e metafisica limitatezza e sofferenza.

Bisogna considerare che questa inclinazione a regredire, a rinunciare alla consapevolezza del mondo, secondo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1831), si manifesta quando l’uomo è costretto a registrare la necessità del conflitto e della dialettica. Assecondare tale tendenza può fare dell’essere umano uno schiavo, un servo dell’esistente, sul piano non solo sociale e politico, ma psicologico.

Basta trasporre alla vicenda trasformativa della psiche quanto il filosofo di Stoccarda asseriva quasi due secoli fa: «[…] il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute […].» [Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi,1972, p. 11].

Dunque, caro lettore, non abbandoni la sua posizione di essere in trasformazione, che lotta per mantenere viva la propria coscienza, e non tenti di combattere ciò che sola può fornirle quel grado di libertà e piacere di essere se stesso nel mondo, anche – o soprattutto – quando proprio quel mondo le appaia volgersi contro di lei, ingiusto, crudele, ostile.

 

 

Gentile Professore,

frequento l’ultimo anno di un istituto tecnico di Ischia. Sono rimasta scioccata dalla violenza con cui il “branco” ha ucciso di recente un ragazzo inerme ad Alatri, ma anche dalle continue violenze sulle donne, i cosiddetti “femminicidi”, e degli attacchi ai deboli in generale. Penso ai bambini uccisi l’altro ieri con il gas nervino in Siria e a tutte le altre mostruosità della guerre e della fame.

        Mi domando, com’è possibile che accada tutto ciò in un mondo civile?

 

L’INESAURIBILE PERPETRARSI DELLA VIOLENZA

 

Gentile lettrice,

era il 1932 quando Albert Einstein (1879 – 1955) e Sigmund Freud (1856 – 1939) scambiarono una pubblica corrispondenza sulla realtà della violenza e della guerra (Perché la guerra?). Sentivano che i fatidici rivolgimenti politici degli ultimi anni – con l’avvento dei fascismi e dello stalinismo – la sostanziale immoralità e superbia degli stati, l’impotenza della Società delle Nazioni (la precorritrice dell’ONU), chiamata ad arbitrare le loro dispute, e il piegarsi del diritto alle ragioni del più forte, stavano per condannare nuovamente il mondo alla carneficina della guerra. Evento che si sarebbe puntualmente verificato sette anni dopo.

 

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