CRONACAPRIMO PIANO

Stop ad Arcadis e depuratore, i Di Meglio si riprendono San Pietro

I giudici della V Sezione del Tar Campania hanno deciso che la società Limparo tornerà in possesso della proprietà dove sorge la struttura mai ultimata. Il termine ultimo per completare i lavori e restituire l’area era previsto il 30 giugno 2016. Imposto anche il ripristino dello stato dei luoghi. E adesso?

Una sentenza che assume davvero una valenza particolare, anche perché parliamo della classica storia infinita, che si trascina da tempo immemore. La Quinta Sezione Penale del Tribunale Amministrativo della Campania, nel decidere nel contenzioso in atto tra la società Limparo – che fa capo alla famiglia Di Meglio, proprietari della catena alberghiera Dimhotels e nello specifico dell’area della collina di San Pietro dove dovrebbe sorgere l’ormai famigerato depuratore – e la società Arcadis, che si occupa della realizzazione dello stesso. La Limparo nel suo ricorso chiedeva alla magistratura amministrativa di provvedere «alla retrocessione e comunque alla restituzione all’avente diritto, delle aree occupate dal Commissario di Governo per la Bonifica e Tutela delle Acque nella Regione Campania, con decreto di occupazione di urgenza n. 289/2004, meglio identificate nell’ “atto di asservimento di area in Ischia località San Pietro per la realizzazione di un impianto di depurazione”, rep. n. 83 del 30 gennaio 2010; al pagamento dell’indennità di occupazione delle aree occupate, dal Commissario Delegato per le Bonifiche e la Tutela delle Acque in Campania ex P.C.M. n. 2425 del 18.3.1996 e dalla sua dante causa, dall’1 gennaio 2010 a tutt’oggi, oltre interessi, rivalutazione monetaria ed accessori come per legge, ai sensi dell’art. 5 dell’atto rep. n. 83 del 30 gennaio 2010, come riconosciuto e confermato nel verbale di concordamento come sottoscritto in data 25 novembre 2013 dall’Agenzia regionale campana difesa suolo e dalla società Limparo s.r.l.».

LAVORI E CONTENZIOSO, UNA STORIA CHE INIZIA NEL 2004

Il contenzioso, ovviamente, ha origini che si perdono ben più lontano nel tempo, come viene ricordato anche dai giudici i quali scrivono: «La società ricorrente premette di essere divenuta proprietaria nell’anno 2004 di un complesso immobiliare sito nel Comune Ischia, località San Pietro, oggetto di una procedura espropriativa avviata nel 2001 (con ordinanza commissariale n. 533 del 26 gennaio 2001, cui ha fatto seguito il decreto di occupazione di urgenza n. 289/2004), finalizzata alla realizzazione di un impianto di depurazione a servizio delle fognature di Ischia e di Barano d’Ischia. In data 30 gennaio 2010, era stato sottoscritto tra il Commissario di Governo delegato per la risoluzione dello stato di criticità in materia di bonifiche e tutela delle acque nella Regione Campania, da un lato, e la società Limparo s.r.l., dall’altro, un atto transattivo, che prevedeva la retrocessione alla società della parte superficiale delle aree occupate, con asservimento dell’area interrata. L’atto stabiliva che l’intera proprietà sarebbe stata restituita alla società ricorrente, qualora l’opera non fosse stata realizzata entro il 31 dicembre 2012. Il corrispettivo per l’asservimento e per l’occupazione fino al 31 dicembre 2009, era stato determinato nell’importo complessivo di € 58.286,73. Le parti convenivano, altresì, che con riferimento al successivo periodo di occupazione l’indennità sarebbe stata corrisposta secondo i criteri di legge. Successivamente, con verbale del 25 novembre 2013, l’Agenzia regionale campana difesa suolo – Arcadis (subentrata alla gestione commissariale) e la società Limparo s.r.l. avevano concordato la proroga del termine di ultimazione delle opere fino al 30 giugno 2016”.

LA SCADENZA NON RISPETTATA E IL RICORSO ALLA MAGISTRATURA

Insomma, come i lettori potranno facilmente intuire, né più né meno che l’eterna storia del depuratore infinito (o mai finito, che poi fa lo stesso) in salsa giudiziaria. La società ricorrente, in ogni modo, non soltanto lamenta che a giugno 2016 l’opera non era stata ultimata né tantomeno era stata posta in essere alcuna attività di ripresa dei lavori. Così come, secondo la parte ricorrente, sarebbero caduti nel vuoto una serie di inviti rivolti all’amministrazione competente (anche con atti di diffida) sia per la restituzione delle aree che per la corresponsione dell’indennità di disoccupazione. La società Limparo, si legge ancora nell’atto, ha chiesto inoltre «che fosse ordinato all’Amministrazione (si intende con questo termine sempre la controparte, ossia la Arcadis) di provvedere in ordine alla suddetta istanza, sia concludendo il procedimento con un provvedimento espresso di restituzione all’avente diritto delle aree come descritte in premessa, sia fissando il termine per provvedere con la nomina, fin da ora, in caso di inosservanza, di un commissario ad acta affinché provvedesse in via sostitutiva a spese dell’Amministrazione». Di rimando la controparte si era costituita eccependo in via preliminare «il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale. Nel merito, poi, ha sostenuto l’infondatezza della domanda avendo offerto alla società ricorrente il pagamento della ricalcolata indennità di occupazione e non potendo procedere alla restituzione dei fondi in quanto oggetto di una rinnovata procedura espropriativa.

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I GIUDICI: DALL’ARCADIS UN “ILLECITO PERMANENTE”

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Nella sentenza successiva all’udienza di merito svoltasi lo scorso 26 maggio, e resa nota nella giornata di venerdì, i giudici della V Sezione (presidente Maria Abruzzese, consigliere Diana Caminiti, referendario ed estensore Fabio Maffei) non hanno dubbio alcuno nel dar ragione alla società proprietaria del terreno e lo spiegano in maniera chiara e minuziosa: «Per la riconsegna del bene non si richiedono particolari formalità ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli artt. 1140 e segg. cod. civ., secondo cui, per la perdita del possesso materiale del bene nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l'”animus derelinquendi”. In altri termini, l’obbligo di restituzione, previa riduzione in pristino stato, opera anche nel caso in cui l’occupazione dell’amministrazione sia stata, ab origine, legittima. In realtà, la resistente, prima occupando il bene in forza dell’accordo raggiunto con la società ricorrente e poi non provvedendo alla sua restituzione previa riduzione in pristino, ha finito per porre in essere un illecito permanente (consistente nell’aver privato illegittimamente la ricorrente della disponibilità del fondo a partire dalla scadenza del termine di occupazione convenuto nell’accordo stipulato inter partes), in violazione degli obblighi civilistici, che impongono al soggetto che detiene un bene “sine titulo” di provvedere all’immediata riconsegna del bene stesso al proprietario».

TRE MESI DI TEMPO PER RIPRISTINARE LO STATO DEI LUOGHI

I magistrati insomma parlano espressamente di condotta illecita e questo di fatto spiana la strada alla loro decisione: «Dunque, risultando priva di idoneo titolo legittimante, l’occupazione dei terreni di proprietà dell’odierna ricorrente, dalla scadenza del termine stabilito nell’accordo inter partes e a tutt’oggi, va considerata sine titulo, sicché, essendosi l’Arcadis limitata esclusivamente ad affermare, senza allegare alcuna prova, l’avvenuta intenzione di rinnovare il procedimento espropriativo, deve essere accolta la relativa domanda di restituzione, con la conseguente condanna della resistente alla restituzione del cespite, libero e sgombero da persone e cose, e con riduzione in pristino delle opere sullo stesso realizzate in seguito alla illegittima protrazione della sua detenzione, entro il termine, che si ritiene congruo, di tre mesi dalla comunicazione ovvero notificazione della presente sentenza. Parimenti, deve ritenersi provato l’an del diritto di credito vantato dalla ricorrente società ed avente ad oggetto l’indennità di occupazione temporanea dovuta a far data dal 1° gennaio 2010, in ragione della espressa previsione della clausola n. 6 pattuita con convenzione del 30 gennaio 2010, avendo peraltro la stessa Arcadis riconosciuto la sua debenza, essendosi il contrasto delle parti incentrato esclusivamente in ordine al suo quantum. Con riguardo alla liquidazione della predetta indennità, considerato che la menzionata clausola ne imponeva la determinazione in ragione dei “criteri legali”, il Collegio ritiene di pronunciare sentenza di condanna ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., a tale scopo stabilendo i seguenti criteri generali per la liquidazione:

l’amministrazione soccombente dovrà proporre alla parte ricorrente, entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione della presente sentenza, il pagamento delle somme dovute per il periodo di occupazione decorrente dal 1° gennaio 2010 fino alla sua riconsegna alla ricorrente; b) la suindicata indennità dovrà quantificarsi in ragione delle effettive possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.), sempre che siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (cfr.: Cassazione civile – sez. VI, 01/02/2019, n. 3168); c) gli interessi, nella misura legale, dovuti per la ritardata corresponsione delle somme spettanti a titolo di indennità di occupazione, in ragione della loro natura e funzione compensativa, decorreranno dal momento di maturazione dei corrispondenti diritti, ovvero più specificamente, dalla scadenza di ciascuna annualità di occupazione fino al soddisfo».

Per tutti questi motivi, a sintetizzare come da prassi, i giudici del Tar statuiscono quanto segue: “Accoglie le domande proposte dalla ricorrente nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto: accerta l’illegittimità dell’occupazione del fondo di proprietà della ricorrente dal 30 giugno 2016 fino all’attualità; condanna l’Arcadis alla restituzione, previo ripristino dello status quo ante, dei cespiti occupati, liberi da persone o cose, entro il termine di tre mesi dalla comunicazione ovvero notificazione della presente sentenza; condanna l’Arcadis al pagamento dell’indennità di occupazione in favore della ricorrente, da quantificarsi, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., secondo i criteri indicati in motivazione; condanna l’Amministrazione soccombente a rimborsare alla parte ricorrente le spese di giudizio, liquidate complessivamente in € 2.000,00 (duemila/00), oltre ad oneri accessori, come per legge, ed oltre alla refusione del contributo unificato; Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa».

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