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Voleva un “tesoro” dal Cisi, il giudice del lavoro boccia le pretese di Costa

ISCHIA – In passato era riuscito due volte, personaggi e interpreti dapprima la dott.ssa De Palma e poi l’ingegner Capobianco, i quali dopo aver esaurito il loro rapporto di lavoro col Cisi avevano ottenuto un indennizzo niente male che aveva gravato non poco sulle casse del consorzio. Stavolta, però, le cose sono andate diversamente ed a farne le spese è stato un altro ex uomo di punta dell’azienda, vale a dire Salvatore Costa. Quest’ultimo aveva chiesto la condanna del Cisi al pagamento dell’importo di oltre 250.000 euro pari “all’ammontare degli emolumenti corrisposti al direttore generale ed in via subordinata al pagamento a titolo di risarcimento danni commisurati alla retribuzione erogata al direttore generale, del medesimo importo. Non solo al giudice del lavoro dott. Sergio Palmieri i legali del ricorrente chiedevano inoltre “la condanna del convenuto al pagamento dell’importo di € 72498,34, a titolo di risarcimento del danno per non avere il convenuto fissato gli obiettivi e quindi erogato la retribuzione variabile prevista dal CCNL vigente. Il tutto oltre l’integrazione del TFR e il versamento dei contributi”. Alla fine, però, ha prevalso la linea difensiva degli avvocati del consorzio ed il risultato è stato non solo che Costa non si è visto corrispondere alcunché ma che anzi al danno si è aggiunta la beffa dal momento che il giudice ha deciso che a suo carico cadranno anche le spese per un totale di 7.283 euro che non sono proprio quattro spiccioli.

LE DIMISSIONI DI CAPOBIANCO, IL RUOLO E LE PRETESE ECONOMICHE

Il procedimento è stata una vera battaglia giudiziaria. Lo stesso Costa in una memoria aveva ricordato al giudice che nel novembre 2004 era stato nominato Vice Direttore Generale giusta delibera n. 34 dell’assemblea dei soci. In pari data, con delibera n. 35, l’assemblea revocava l’incarico di Direttore Generale all’ing. Capobianco: incarico che pertanto, secondo previsione statutaria, veniva svolto dal ricorrente, nella qualità appena acquisita di Vice Direttore. Ecco perché nel ricorso si legge che Costa “ritiene pertanto che gli siano dovute, ai sensi degli artt. 3 e 36 Costituzione., o in subordine a titolo di risarcimento del danno, per il periodo di svolgimento di tali compiti, le due voci fino a quel momento corrisposte al Capobianco ‘contingenza’ (così impropriamente definita laddove trattavasi di maggiorazione ex art. 4 e 6 ccnl Dirigenti Industria), per € 527,70, e Firmato Da: PALMIERI SERGIO Emesso Da: POSTECOM CA3 Serial#: 162e62 Sentenza n. 7473/2016 pubblicato. il 18/10/2016 RG n. 18578/2015 2 ‘indennità aggiuntiva personale’ per € 1172,36. Inoltre, lamenta che il convenuto non ha dato seguito all’accordo del 24/11/09 (recte: 25/11/09), che avrebbe aggiunto al ccnl l’art. 4 in base al quale le aziende avrebbero dovuto predisporre propri piani aziendali per l’attuazione di sistemi incentivanti onde favorire la produttività ed il merito. Sicché chiede la condanna al risarcimento del danno conseguente alla mancata attuazione di tale modello, e commisurato ad un compenso aggiuntivo, fissato in via equitativa nella misura di due mensilità all’anno.

 

LE BARRICATE DEL CISI, CHE AVEVA CHIESTO IL RIGETTO DEL RICORSO

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Dall’altra parte, naturalmente, il Cisi ha chiesto il rigetto del ricorso definendolo infondato. Nella sentenza di legge che “Lo stesso ricorrente è consapevole dell’assenza di qualsiasi fonte normativa o contrattuale che possa legittimare le proprie pretese, sicché si limita, quanto alla prima domanda, ad invocare un giudizio di proporzionalità della retribuzione suggerito dall’art. 36 Cost., la cui diretta applicabilità, per contro, viene dalla giurisprudenza riconosciuta laddove il datore di lavoro non applichi un determinato contratto collettivo, sicché l’art. 36 consente l’utilizzazione della fonte contrattuale come strumento meramente parametrico per l’individuazione di un minimo costituzionale garantito (ovviamente caratterizzato, per lo più, dalle sole voci retributive di derivazione legale contenute nel contratto, con l’esclusione di tutti gli emolumenti contrattuali). Nel caso di specie, per contro, proprio il contratto collettivo non prevede alcun compenso – o almeno alcuna norma in tal senso viene richiamata dalle parti, sicché, non essendo i contratti collettivi soggetti al principio iura novit curia, le norme in essi contenute non possono essere applicate d’ufficio (Cass. Sez. L, Sentenza n. 10914 del 17/08/2000; Cass. Sez. 6 – L, Sentenza n. 19507 del 16/09/2014) – per il caso in cui il vice direttore sia chiamato a sostituire il direttore, come è peraltro insito nello stesso significato letterale del prefisso ‘vice’, che implica che la funzione è fisiologicamente quella di sostituire qualcuno (nella specie il direttore). Ne consegue che alcuna violazione dell’art. 36 Cost. è ravvisabile nella condotta del datore di lavoro che si attiene ai parametri retributivi stabiliti dal contratto collettivo, dovendosi ritenere che le parti sociali, nel disciplinare il trattamento economico del vice direttore, non possano non aver tenuto conto dello svolgimento, fisiologico, da parte di questi dei compiti del sostituito. Ovviamente, non essendo ravvisabile alcuna illegittimità nella condotta datoriale, anche la domanda subordinata di conseguire il medesimo importo ma a titolo risarcitorio, è infondata.

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IL GIUDICE E IL DITO NELLA PIAGA: INFONDATEZZA DELLE DOMANDE

Ma non è tutto perché il giudice mette il dito nella piaga e spiega pure che “Altrettanto palese è l’infondatezza della seconda domanda principale. La norma invocata dal ricorrente recita: «1. Le aziende, di norma annualmente, informeranno la RSA circa i criteri e le modalità di attuazione dei sistemi incentivanti e premianti adottati. 2. Per le aziende che non avessero predisposto propri piani aziendali – in coerenza con l’esigenza di favorire la diffusione nelle imprese di un modello retributivo maggiormente rispondente alle caratteristiche richieste alla figura del dirigente ed alle sfide della competitività e tenuto conto dell’innovazione della struttura della retribuzione introdotta dal contratto collettivo nazionale di lavoro 24 novembre 2004 – vengono allegati al presente contratto tre modelli alternativi di MBO che potranno essere di riferimento per le stesse aziende». Al di là di un generico dovere di informazione verso le organizzazioni sindacali, alcun preciso obbligo a carico del datore di lavoro è contenuto nella norma in esame. Le parti sociali hanno infatti inteso sì favorire l’adozione di modelli premianti, ma, lungi dal prevedere disposizioni immediatamente precettive, hanno lasciato ciascuna impresa libera di definire le concrete modalità di realizzazione di tali modelli, senza fissare al singolo datore di lavoro alcun preciso vincolo, né alcun termine per ottemperare all’invito. Non a caso, la medesima disposizione prevede, per le imprese che non avessero ancora provveduto, la mera facoltà di utilizzare come parametro di riferimento tre modelli alternativi di Management By Objective (MBO). Contestualmente, onde evitare che tale programma restasse lettera morta, le stesse parti sociali hanno avocato a sé ogni forma di verifica circa l’effettiva attuazione del programma da parte dei singoli datori di lavoro”.

NESSUN RIMBORSO, ANCHE LA BEFFA DEL PAGAMENTO DELLE SPESE

Insomma, una serie di concetti abbastanza chiari che inducono a dedurre che “Dunque la norma viene costruita piuttosto come un programma la cui attuazione è favorita dall’attribuzione ai sindacati di un generico potere d’impulso, che non come un preciso obbligo alla cui inosservanza siano collegate conseguenze o sanzioni di sorta a carico del datore di lavoro. Mancando qualunque contenuto immediatamente precettivo, e mancando in ogni caso un termine per l’adempimento del presunto obbligo, non sussistono i requisiti minimi per poter individuare, correlativamente, una forma di inadempimento imputabile, come tale fonte di un diritto al risarcimento del danno. Risarcimento che peraltro viene liquidato in misura del tutto apodittica, nella misura del 15% della retribuzione annua, senza che alcun concreto elemento possa giustificare tale scelta e renderla preferibile a qualunque altra possibile scelta. E secondo quanto la Cassazione ha già avuto modo di chiarire, nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l’arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro. E quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1781 del 08/02/2012). E sulla scorta di tali principi, i giudici di legittimità hanno altresì avuto modo di rilevare come persino a voler riconoscere l’esistenza di ipotesi di danno in re ipsa – in cui la presunzione si riferisce solo all’an debeatur (che presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit) e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale – permanga la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15814 del 12/06/2008). Ed in proposito, con condivisibile rigore si è sostenuta la netta separazione tra il problema attinente al rapporto tra comportamento ed evento dannoso (problema dell’accertamento della responsabilità, o dell’an debeatur), ed avente come referente normativo la «clausola generale» dell’art. 2043 c.c., o la previsione dell’art. 1218 c.c., che ne costituisce una specificazione in campo contrattuale, e l’altro, relativo all’ambito del danno risarcibile (problema dell’estensione della responsabilità, o della determinazione del quantum debeatur), incentrato sui criteri dettati agli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., richiamati dall’art. 2056 c.c.. Emblematico, in proposito, il noto ‘caso Meroni’, affrontato dalla giurisprudenza di legittimità con due successive decisioni, l’una relativa al riconoscimento astratto della risarcibilità della lesione del credito (Cass. Sez. U, Sentenza n. 174 del 26/01/1971), l’altra, con la quale si è negato, in concreto, che il creditore, una società calcistica, potesse legittimamente avanzare pretese risarcitorie nei confronti dell’uccisore del calciatore, perché quest’ultimo era stato sostituito con altro appartenente alla stessa società, il cui rendimento fu tale da incrementare il numero degli abbonamenti, sicché la società «aveva mantenuto, ed anzi aumentato, il livello di redditività» (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1459 del 29/03/1978). Stabilire se una determinata condotta sia da ritenersi illecita è dunque una valutazione che si pone logicamente a monte del diverso problema del calcolo economico delle perdite subite dal danneggiato, da addossare al responsabile”.

LA SENTENZA E IL RICORSO RIGETTATO

Nella sua sentenza il giudice del lavoro Palmieri rincara la dose ed aggiunge anche quanto segue: “Tuttavia, se l’accertamento sul punto dell’an costituisce condizione necessaria al fine della proponibilità di un’azione risarcitoria, esso non è altresì sufficiente, atteso che, anche ai fini di una liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c., occorre pur sempre fornire la prova dell’esistenza di un danno, inteso come conseguenza pregiudizievole per il soggetto che si assume danneggiato dalla condotta contra ius del soggetto riconosciuto responsabile. Anche la valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., infatti, non si sottrae alla logica sopra delineata e non può costituire un rimedio per aggirare i limiti strutturali della responsabilità civile (difesi anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza del 27/10/94, n. 372) onde introdurre surrettiziamente nel nostro ordinamento i ‘danni punitivi’, tipici del diritto nordamericano. In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato che la parte che domanda il risarcimento del danno da fatto illecito non può limitarsi ad invocare la liquidazione equitativa del danno da parte del giudice, ma è necessario che essa fornisca la prova del danno indicando le componenti di esso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12256 del 03/12/1997; Sez. 1, Sentenza n. 8854 del 01/06/2012). Il ricorso va pertanto respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, così provvede: a) rigetta il ricorso; b) condanna il ricorrente al pagamento, in favore del convenuto, delle spese di lite, che liquida in € 7283,00, oltre 15% per spese forfetarie IVA e CPA”.

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