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Abuso di modesta entità, per la Cassazione non c’è reato paesaggistico

ISCHIA. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino foriano contro l’ordinanza della Corte d’Appello di Napoli in una vicenda relativa a un piccolo abuso edilizio. Escludendo la sussistenza del delitto paesaggistico ed estinguendo, per intervenuta prescrizione, non solo il reato ma anche la pena da scontare. Tutto parte da una sentenza di condanna emessa nel 2009 nei confronti di un cittadino isolano per i reati previsti dagli articoli 44 comma 1 lettera c, 83 e 85 del Dpr 380/2001, del Dlgs 42/2004, e degli articoli 81 e 110 del codice penale, “per aver in qualità di proprietario committente, continuato ed eseguito, in assenza di permesso a costruire, in zona sottoposta a vincolo, ex art. 131 e ss. Dlgs. 42/2004”, realizzato un manufatto di circa trenta metri quadri con struttura in celloblock e copertura in lamiere coibentate. La condanna, emanata dalla sezione di Ischia del Tribunale ai sensi degli articoli 533 e 535 del codice di procedura  penale,  consisteva in una pena di quattro mesi di reclusione oltre alle spese, con demolizione delle opere e rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

Sentenza contro cui l’imputato inoltrò tempestivo ricorso, e che fu parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Napoli, con una sentenza del marzo 2013, applicando una riduzione della pena in tre mesi di reclusione e due giorni per la condanna prevista dall’articolo 181, comma 1-bis del Decreto legislativo 42/2004, e dichiarando il “non doversi procedere” per i reati di natura contravvenzionale per intervenuta prescrizione.

Quest’ultima pronuncia venne impugnata tramite ricorso presso la Corte di Cassazione che, con sentenza emessa nel settembre 2015, dichiarò l’inammissibilità dell’atto, con  conseguente passaggio in giudicato della sentenza, così come riformata dalla Corte d’Appello.

Contro l’esecutività della pronuncia, venne promosso l’incidente di esecuzione ai sensi degli articoli 666 e 673 del codice di procedura penale, con richiesta al giudice dell’esecuzione di revoca della sentenza, visto il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dall’articolo 44 comma 1 lettera c del Dpr 380/2001, espressamente richiamato dall’articolo 181 primo comma del Decreto legislativo 42 del 2004, tornato in vigore dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 56 del 2016.

Tuttavia la Settima sezione penale della Corte d’Appello di Napoli emise ordinanza di rigetto contro tale richiesta. Un esito che ha indotto la difesa, sostenuta dall’avvocato Michelangelo Morgera, a ricorrere alla Corte di Cassazione eccependo l’assoluta inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale “ex articolo 606 comma 1 lettera b del c.p.p., in relazione all’articolo 673 c.p.p., nonché l’articolo 2 del codice penale”.

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La faccenda ruota intorno alla citata sentenza n.56/2016 della Corte Costituzionale, che testualmente dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 181 comma 1-Bis del Dlgs 42/2004, il cosidetto Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142”.

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In pratica, la Corte Costituzionale delimita il delitto paesaggistico ai soli interventi volumetrici di particolare consistenza. Quindi, secondo la difesa del cittadino foriano, gli abusi non autorizzati ricadenti su zone vincolati devono essere ricompresi nella contravvenzione del comma 1 dell’articolo citato, con conseguente riduzione dei termini di prescrizione.

La pronuncia della Corte Costituzionale ha comportato la parificazione del trattamento sanzionatorio di fattispecie omogenee,  riconducendo le condotte di abuso paesaggistico sotto la più lieve contravvenzione del comma 1, punita dall’articolo 44 lettera c del Dpr 380/2001.

Vista la dichiarazione d’incostituzionalità, l’avvocato Morgera tramite copiosi riferimenti giurisprudenziali ha invocato nel caso in esame l’applicazione dell’istituto della revoca della sentenza per abolizione del reato ex articolo 673 c.p.p. che, sul piano processuale, offre lo strumento della revoca delle sentenze penali di condanna, emesse sulla base di norme dichiarate costituzionalmente illegittime.

In sostanza, secondo la difesa, non può essere incriminato il soggetto che abbia violato una norma penale dichiarata incostituzionale, in quanto  anche l’eventuale sentenza definitiva di condanna ne viene travolta.

Richiamandosi alla costante giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il penalista isolano ha sottolineato l’errore in cui è incorsa la Corte d’Appello di Napoli: quest’ultima aveva affermato di trovarsi dinanzi a un intervento che riguarda non la illiceità delle condotte, ma solo il trattamento sanzionatorio. Invece, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena “in executivis”, tutte le volte in cui la sentenza d’incostituzionalità incide non solo sulla fattispecie incriminatrice, ma anche sul trattamento sanzionatorio.

L’avvocato Morgera ha inoltre evidenziato il principio di retroattività delle sentenze che dichiarano l’invalidità costituzionale di una norma, effetto che si riferisce anche al trattamento penale: in tal senso, è come se la norma dichiarata incostituzionale non fosse mai stata emanata (effetti ex tunc, in gergo giuridico secondo il brocardo latino), e dunque le favorevoli ricadute verso l’imputato devono essere riconosciute sia dal giudice di cognizione che dal giudice dell’esecuzione. Quindi, al momento in cui fu emanata la sentenza di secondo grado, il reato contestato al cittadino foriano (divenuto di natura contravvenzionale) era già prescritto, così come sono stati dichiarati estinti tutti gli altri reati.

Fra l’altro, la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto assente l’interesse concreto e attuale del condannato a ottenere la rideterminazione della pena applicata con sentenza  irrevocabile sulla base di parametri divenuti più favorevoli. In realtà, come ha spiegato la difesa nel ricorso, l’imputato aveva tutto l’interesse a ottenere, in luogo della sospensione condizionale della pena, una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, circostanza che produce l’effetto di estinguere non solo il reato ma anche la pena da scontare, oltre ovviamente ogni altro effetto negativo nella sfera giuridica della persona. La Terza Sezione della Suprema Corte ha accolto le ragioni esposte dall’avvocato Morgera, e all’esito della camera di consiglio dello scorso 23 maggio ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, che ora dovrà uniformarsi all’orientamento richiamato dalla difesa.

 

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