CULTURA & SOCIETA'

Inaugurato il busto ispirato a Vittoria Colonna

L’opera dell’artista Giovanni De Angelis posizionata nel borgo antico di Ischia Ponte con in vista il Castello Aragonese

DI ANNA DI MEGLIO COPERTINO

Fine Dicembre, umbratile, del 2023. C’era la “piazza” di borgo, individui di passo, in un sabato festivo, fardelli individuali incrociantisi, ora con buona, ora con pittoresca mala grazia, le autorità di paese, i giovani, gli anziani, qualche umile creatura al guinzaglio, qualche altra in volo; “qui tra la gente che viene che va/[…] dove son merci ed uomini, il detrito/ di un gran porto di mare[…]/Qui […]il vecchio/ che bestemmia, la femmina che bega, […]/Qui degli umili sento in compagnia/ il mio pensiero farsi più puro […].” Cantano alla mia mente questi suggestivi versi di Saba, tratti da Città vecchia.

C’erano nuvole oscure “trascorrenti in un rancio, con il grigio/ del cielo, così alto… Vivere al baleno/ del vento di terra della storia […], può far paura dacché il mondo è tutto/ davanti ai nostri occhi e dentro il cuore/come un luogo pazzesco di dolore […]” (G. D’Elia, Questa è un’aria che tira dai Balcani); c’era il mare, in sordina, acquattato, come fiera a riposo, c’era lo “scoglio”, orrido (per la vertigine da sincope del precipitarsi in mare) e adorato, come, alternativamente, lo percepiva e definiva Vittoria, castellana. C’era un esile uomo, consunto dalla passione creativa e il vulcano dei suoi gesti, delle sue mani. C’era, emotivamente spiazzante, l’opera creativa, che sempre da tanto imperfetto tormento, sempre da tanto indicibile desiderio nasce/rinascendo infinita.

Una piccola corte (a tratti, dei miracoli), senza rigida organizzazione, allestita intorno alla celebrata dama rinascimentale, artista e oggetto d’arte, “artante/artata”, allora e oggi, rediviva. Rediviva, con sul volto tutti i segni della storia vissuta, gestita e subìta, tutto lo stordimento confuso stravolgente, tutta l’alienata follia dell’innaturale ritorno dall’Ade, novella Euridice, richiamata dalle dita insinuanti golose amanti sbozzanti gaudenti tormentate redentrici liberatrici di un creatore ribelle a ogni legge esterna.

Vittoria Colonna (1490-1547) appartiene ormai al nostro immaginario, alla nostra storia, interiorizzata non solo dagli intellettuali, ma anche, forse soprattutto, dalla gente comune, con quella immediatezza generosa con cui l’ischitano da generazioni accoglie l’altro. E l’altro sempre gli restituisce qualcosa. I luoghi non sono confini rigidi, ma nastri fluttuanti. E le storie natìe che accompagnano gli uomini vaganti son fatte per intrecciarsi e scoprirsi reciprocamente e interagire. Vittoria Colonna venne dal Lazio, da Marino, a coronare il suo legame matrimoniale con Ferrante D’Avalos, nel luogo fra i più iconografici della nostra isola, il Castello, come familiarmente lo chiamiamo. Il Castello, per antonomasia. Nobildonna, raffinata, colta, fra le più ammirate del tempo, poetessa, amica e oggetto di lodi da parte di grandi, quali Michelangelo, Jacopo Sannazzaro, Girolamo Britonio, Bernardo Tasso, Ariosto…

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Il ricordo di lei ci appartiene e oggi la sua effigie torna grazie all’arte di Giovanni De Angelis. Torna a pochi passi dal suo Castello. Torna con lo sguardo nostalgico dell’amore perduto in guerra, che ispirò tanti suoi versi. Torna, imprigionata dal passato, ma liberata dalla capacità visionaria di Giovanni. Libera in parte dagli orpelli che ne rappresentavano il rango, i costumi, i doveri, le convenzioni. Liberata dal vento che sul Castello certo la sfiorò, la percorse, le alitò contro, le svincolò i capelli. Libera di esser donna, come già le sue parole la dimostraron capace, più emancipata di quanto fosse lecito affermare e mostrare, pur nella caparbia ricerca di una conclamata castità. Donna e quasi uccello, come il volto scolpito, la torsione del capo, l’angolazione obliqua degli occhi, “la distorsione espressiva” (S.Ronga) rivelano, senza volerlo dando risposta al desiderio da lei espresso in versi :“Vivo su questo scoglio orrido e solo quasi dolente augel che ‘l verde ramo e l’acqua pura aborre, e a quelli ch’amo nel mondo ed a me stessa ancor m’involo”. Sembra infatti di desiderio involarsi. L’espressione anelante, smarrita, sorpresa, le narici dilatate, fiera, ma non ritrosa, incantata da visioni, le labbra sensuali dischiuse, il collo lungo e nudo in offerta, donna cigno, animale signora, languida solenne, folle d’attesa. Torna in questa piazza di mare, tante volte “nel” mare – “del” mare, mi corregge, non senza strumentale sorridente captatio benevolentiae, il sindaco anfitrione; torna a essere sola nel sole, velata nell’ombra, arte poetica nell’arte scultorea. Torna a cantarci e a incantarci. Torna di diritto e con la forza che il bello immortale ha saputo esercitare su un suo adepto, ispirandolo, superando una formidabile barriera di ben 5 secoli.

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Le opere Di Giovanni De Angelis sono creature surreali che attraversano il tempo, vascelli fantasma, messaggi subliminali e sublimati di storie secolari, fattezze materiali divenute visioni, destinate a sopravvivere al momento, fasci di energie, emozioni, tormenti, interrogativi, invettive, ribellioni, cristallizzati in immobilità apparentemente estatica, eppure vibrante, vita intrappolata fra universi paralleli, in infinita attesa di liberazione. Giovanni agita infine lo spumante e ne investe la nobildonna immota, a fiotti ripetuti, timidi dapprima, più violenti, impetuosi, festosi, orgiastici, compiaciuti, poi: “come l’acqua sulla scultura corrono, luccicando a lume d’astro nebbioso”(R. D’Agostino, rivisitaz. della scrivente). Nella mente una voce (mia, ma che sempre, come altra, mi fa sua) sussurra di getto: E già il giorno degrada/ e ciò che appena nacque/ s’ avvia a viaggiar l’etterno…

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