CULTURA & SOCIETA'

Quel terreno avvelenato per non far costruire la Torre

Fanno bene gli acculturati del Sadoul ad insistere all’interno della Torre di Michelangelo sulla riscoperta delle pitture murarie e trasmettere il loro valore antico anche se i cui autori sono ancora tutti da scoprire. Noi ci occupiamo della storia reale e ricostruita della Torre svelando qui un episodio di cronaca di quel tempo che fece molto scalpore nel nascente Borgo di Celsa e d’intorni collinari.   Protagonista fu la Famiglia Galatola, proprietaria o tenutaria del terreno su cui si era deciso di costruire l’antica fortezza.

Una Torre di consistente volume per ampiezza e fortezza nella località prescelta fu considerata dagli strateghi d’armi di stanza sul castello e dallo stesso capitano Innaco D’Avalos, II, opera necessaria e urgente per la difesa della costa, del Ninfario, di Cartaromana e del Castello. Dalla sua altezza, per lo meno, si poteva avvistare il nemico o il pirata di turno con manifeste intenzioni tutt’altro che pacifiche, ed organizzare la difesa prima di subire l’eventuale assalto. In pratica, la Torre non doveva essere un manufatto fine a se stesso con il solo compito di avvistamento e difesa. Doveva altresì avere anche capacità abitative. Insomma si pensò di costruire un solido edificio con comodo ingresso, stanze capienti, livello a tre piani con finestre e merlettatura architettonica alla sua sommità per un maggiore decoro estetico da conferire a quella che i posteri chiameranno poi Torre di Michelangelo per gli episodi storici che quel tempo produsse.

Infatti i lavori iniziarono e proseguirono secondo le precise indicazione del progetto degli architetti di corte e del comando militare di stanza sul castello e sulla marina dell’Isola Maior agli ordini del capitano D. Innaco D’Avalos. Al riguardo fanno fede date, nomi e circostanze coincidenti. La storia, in mancanza di documenti visivi, si scrive anche attraverso le testimonianze ricostruite dei suoi protagonisti e degli episodi ad essi collegati. Quindi la Torre vide la sua luce con gli aragonesi, quando la famiglia D’Avalos incideva il suo prestigioso marchio dinastico sull’isola esprimendo lungo tutto l’arco della propria storia dame e cavalieri blasonati, vescovi e cardinali, uomini d’armi e personaggi di primo piano per nobiltà di casato. Il luogo ove la Torre doveva avere le sue fondamenta era vincolato alla proprietà dei beni della diocesi retta dal Vescovo Giovanni De Chico con Episcopio sul castello e molto vicino al Re Alfonso d’Aragona. Intervenire sul quel terreno non fu semplice perché bisognava superare l’ostacolo del possesso in concessione ceduto dal Capitolo della Cattedrale al signor Bernardino Galatola previo pagamento annuo di cinque tarì da versare allo stesso Capitolo cattedrale.

Le resistenze della famiglia Galatola andarono oltre la semplice, anche se decisa opposizione, per impedire che si occupasse un fondo a ricca coltivazione ed utile per ricavar profitti

Al riguardo presso l’Archivio Capitolare della Cattedrale è conservata una copia abbastanza sbiadita di un atto notarile che risale al 1498. In esso si fa parola di una cessione, anni addietro, in enfiteusi di alcuni orti e cortili con annessa casa colonica siti in Ischia nella zona di terreno denominata “parata delle quaglie” in prossimità della chiesetta di S. Anna, allora già esistente, e confinanti con la proprietà della defunta Coletta Galatola madre di Bernardino Galatola.

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Nel documento compare a chiare lettere il diritto che il Capitolo Cattedrale si riservava di accedere al terreno in qualsiasi momento con i nomi dei firmatari, i canonici Martino Albano, Berardino de Arzes, Andrea della Candida, Colangelo Russo, Raffaele de Borza e Giovannello Mellusi.  In luogo della vecchia casa colonica o nelle vicinanze di essa, furono gettate le fondamenta della Torre per intervento diretto del successore dello scomparso Alfonso d’Aragona, Re Ferdinando II l’aragonese, all’epoca in ritiro sul Castello con la famiglia, Occorsero poco più di due anni per portare a termine i lavori della Torre. Prestarono la propria opera manuale maestranze del Castello, del Borgo di Celsa e della marina del lago. I materiali per la costruzione furono caricati nelle cave della Puzzolana  alle spalle della Corteglia e sotto il monte di Campagnano, mentre le pietre arrivarono da Zaro e da Marecoco a Forio. Le pietre della cava rocciosa di Marecoco, meno scure, furono utilizzate e modellate per i portali, gli orli e le finestre. Il trasporto, com’era normale a quel tempo, avvenne con i muli e con pesanti carretti a ruote di legno. L’acqua per gli impasti fu  prelevata dai pozzi del Ninfario e dal terminale di Buceto del vicino Borgo di Celsa. Non mancarono episodi di disturbo ed incidenti di percorso durante i lavori di fabbrica  del manufatto che servirono solo a ritardare i tempi di consegna.  Si racconta che un altro figlio di Coletta Galatola, Matteo Galatola,  fratello di Berardino Galatola,  che deteneva una particella di terreno coltivata per tutta la sua ampiezza, laddove doveva essere edificata la Torre, avvertendo il concreto pericolo di poter  perdere quel fondo che gli procurava da vivere, attraverso la produzione di buona frutta, ortaggi vari e tant’altro che gli offriva il terreno compreso la gestione di alcuni maiali, capre e galline, architettò uno stratagemma, che poi non risultò efficace, per impedire che gli distruggessero la proprietà per far posto ad una costruzione di cui, dal suo punto di vista,  non ne comprendeva l’importanza.

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Matteo Galatola, sostenuto dai suoi due figli, Isidoro e Libera poco più che ventenni, ma abbastanza in gamba per seguire il padre in quella disperata azione difensiva, di notte sparse per buona parte del suo terreno un liquido di colore giallastro dagli effetti, a dire del Galatola, velenosi per piante, animali e persone, per raggiungere l’insano scopo di rendere infetto l’intero terreno e quindi renderlo impraticabile ed inavvicinabile. Ma l’inganno fu scoperto subito, e Matteo Galatola dovette rispondere di falso e ribellione alla pubblica autorità. Matteo Galatola per punizione fu condannato a consegnare per un anno la metà del raccolto del suo terreno che gli rimaneva, alla guarnigione del Re sul Castello d’Ischia e di guardia nel vicino Borgo di Celsa. Quando i lavori di costruzione della Torre giunsero a termine, l’intera zona del Ninfario e della Parata delle Quaglie fra il terrazzamento di S. Anna (prima che nascesse la chiesetta si chiamava solo Ninfario) e la sorgente di Cartaromana, cambiò decisamente aspetto. Il paesaggio dirimpettaio visto dal Ponte di fabbrica e dai “belvedere” del Castello, mutò la sua faccia. Quell’enorme edificio collocato nel mezzo di un ricco giardino a pochi passi dal mare, ad un’altezza sufficiente per dominare il golfo e l’orizzonte, per la sua imponenza e funzione, incuteva soggezione, rispetto ed anche timore nell’animo della gente del luogo e di coloro che dai vicini insediamenti si recavano   a scrutarne la grandezza. Si accedeva alla Torre attraverso tre strade, per terra e per mare. Quella più frequentata, partiva dalla marina della Corteglia nel Borgo di Celsa in lungomare fino alla chiesetta di S.Anna  da dove ci si immetteva in un “passaggio” che portava direttamente al giardino ove si ergeva la monumentale costruzione. La seconda strada, ovvero, la mulattiera, via terra, che consentiva di percorrerla anche con capaci carretti, era, invece, la stessa che dall’altipiano del Soronzano, versante interno, oggi località “Cappella del Carmine”, portava al terrazzamento di S. Anna  e di lì alla Torre. La terza strada, partiva dalla fascia costiera di Cartaromana, attraversava il Ninfario e menava direttamente sullo spiazzo di fronte al portale d’ingresso della Torre.                                                                                                           antoniolubrano1941@gmail

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