CULTURA & SOCIETA'

Bob Geldof a Ischia Global «Quando il Live Aid svegliò i politici»

Lacco Ameno l’artefice di uno dei grandi eventi musicali e benefici che ha segnato la storia. «Ero mosso da rabbia e vergogna per quello che accadeva in Africa.» Muri e barriere? «Non servono a nulla.» E da Yeats, poeta irlandese a cui ha dedicato un film, «ho imparato i pericoli del nazionalismo»

E’ la fine del 1984 quando la giovane musica inglese decide di tastare il polso all’impegno umanitario. Una scelta rischiosa, quella intrapresa da Bob Geldof (all’epoca leader della band punk new-wave The Boomtown Rats) e Midge Ure degli Ultravox, ma che si rivela vincente. Esce “Do they know it’s Christmas”, canzone nata per raccogliere fondi contro la fame in Etiopia. Un supergruppo formato per l’occasione da i nuovi talenti della scena anglosassone (Bono Vox, George Michael, Duran Duran, Boy George) e da star come David Bowie, Phil Collins e Sting rinnova l’era della beneficenza. Il 13 luglio si celebra a Wembley il Live Aid, maratona musicale alla quale aderisce mezzo mondo del rock, parte del quale è collegato via satellite da Philadelphia. Evento seguito in diretta televisiva da due miliardi e mezzo di persone, e ripetuto su scala planetaria nel 2005 con Live 8. Bob Geldof, artefice di questo come di tanti altri progetti umanitari, è l’ospite d’onore del Social Cinema Forum, promosso con il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, e dell’Italian Music Summer Summit, in collaborazione con la SIAE.

«In quel momento – ricorda Geldof a proposito di Live Aid – il problema era evitare che 30 milioni di esseri umani morissero di fame. C’era una carestia pazzesca e il motore che ci ha spinto a organizzare l’evento era raccogliere una enorme quantità di danaro per evitare il peggio. Tutti vedono in me questo grande sforzo umanitario, ma in quegli anni ero mosso esclusivamente dalla rabbia e dalla vergogna. In Africa la situazione era disgustosa, non era concepibile che a poca distanza dall’Europa, 30 milioni di persone rischiassero di morire per fame.»

Oggi invece attraversano il mare per scappare da guerre e carestie.
«Respingere queste persone è profondamente sbagliato. Sono quelli che hanno meno responsabilità rispetto a ciò che è accaduto in Africa o in paesi che noi abbiamo contribuito a rovinare. Sono irlandese, conosco i danni del nazionalismo, anch’io sono scappato dal mio Paese e ringrazio sempre l’Inghilterra per avermi accolto e permesso di vivere una vita migliore. Le politiche che mirano alla costruzione di barriere o muri non servono a nulla. Il futuro è nelle connessioni tra esseri umani, non nelle divisioni o nei messaggi di odio »

Soprattutto in tempi di inevitabili migrazioni, anche ‘climatiche’.
«E’ un aspetto che non avevamo considerato: la desertificazione. Eppure James Lovelock, che oggi ha quasi 100 anni, lo aveva predetto. La Terra ha un meccanismo che si autoregola, come quando ci ammaliamo e il nostro sistema immunitario si attiva. Penso che la Terra si salverà, perché noi siamo il virus, quelli destinati a essere espulsi e a soccombere.»

Cosa può fare la politica?
«Il Live Aid fu importante anche per questo. I politici si muovono solo di fronte ai grandi numeri. Possono permettersi di ignorare una singola voce, non centinaia. Credo che tutti noi abbiamo una responsabilità individuale. Ognuno di noi deve contribuire per quanto può e non farlo significa morire dentro come esseri umani. Le prime volte che sono andato in Africa ho capito davvero cosa significa morire di fame. Si muore perché non hanno nulla. E’ un concetto, quello dell’assenza, del “nulla”, che noi occidentali non riusciamo nemmeno a immaginare. Bisogna cambiare le regole dell’economia. Non solo raccogliere fondi, occorre modificare profondamente la gestione dell’economia e del commercio mondiali»

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Quanto tempo ed energia ha portato via questo impegno alla sua creatività di autore musicale?
«Live Aid e Live 8 sono stati due grandi impegni. Il secondo perfino maggiore, dati i concerti in contemporanea in più città, compresa Roma, al Circo Massimo, e centinaia di artisti coinvolti da tutto il mondo. In realtà continuo essere impegnato in prima linea in molteplici attività; ogni giorno dedico almeno due ore a queste battaglie senza sottrarli alla mia musica. E’ normale attività quotidiana. Per me, ridurre le disuguaglianze e aiutare chi ha bisogno è il modo migliore per restare umani. E’ un impegno che non mai interferito con la musica, non sono uno che dice oggi mi siedo e per tre ore compongo musica. L’ispirazione arriva quando arriva.»

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Ha visto Bohemian Rhapsody? Che le è sembrata la ricostruzione della performance dei Queen alla Wembley Arena?
«Non ho visto il film. Si parla di amici, di persone care, e poi non mi piace vedermi sullo schermo. Sono piacevolmente sorpreso dal successo enorme di questo film. L’esibizione dei Queen fu solo una delle tante performance favolose di quel concerto memorabile. La musica sa raggiungere il cuore di tutti. Sicuramente avranno cambiato qualcosa per esigenze drammaturgiche ma sono contento del successo economico del film. E’ un risultato che fa bene a tutti.»

A Ischia Global ha presentato un film, “A fanatic heart: Geldof on Yeats”, dedicato alla vita di uno dei più grandi poeti del Novecento.
«Nei miei viaggi in Africa, portavo sempre con me un libro di poesia. La musica e la poesia, pur essendo forme d’arte diverse, riescono ad esprimere delle cose altrimenti impossibili. Leggendo i versi di William Blake Yeats, secondo me tra più grandi autori del ventesimo secolo, ho compreso i pericoli più insidiosi del nazionalismo che, anche nel mio Paese, ha prodotto tanti, troppi morti.»

Continua a non amare il lunedì, come cantava in una sua celebre hit “I don’t like Mondays”?
«Quarantadue anni fa era un giorno tremendo. Da allora continua a essere sempre peggio.»

Foto Trani, Eugenio Blasio, Maria Covino

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