LE OPINIONI

IL COMMENTO Tra fango e pezzi di vetro, dove il tempo si è fermato

È tutto come quel giorno. Il traghetto attraccato alla banchina del porto di Pozzuoli, l’orario di partenza, che è quasi lo stesso. La giornata grigia, il vento forte e il mare increspato. Come quel giorno hai il cuore in gola, perché stai per andare ad Ischia e non lo fai per vacanza, svago o divertimento. L’isola verde ti aspetta per mostrarti il suo lato più debole, le ferite più sanguinanti e l’aspetto truce e lacerante dell’incuria e dell’indifferenza. Come quel giorno, il lento avvicinarsi della nave al porto dell’isola è un conto alla rovescia verso la tristezza. Dalla prua si scorge la cima dell’Epomeo. Come quel giorno, avvolta dalle nuvole. Sono passati dodici mesi da quel tragico 26 novembre. Maledettamente pochi per poter dimenticare. E come quel giorno di un anno fa, il lavoro di cronista ti porta a visitare i luoghi della frana, a scavare nel dolore delle persone. Guardi la banchina e la immagini piena di mezzi della protezione civile, di camion dei vigili del fuoco, di auto della polizia e dei carabinieri. Poi ti incammini verso Casamicciola. In qualche tratto di strada c’è ancora qualche transenna. Ti imbatti in una ruspa che leva terreno e fango dalla strada statale. Conseguenze dell’ultima pioggia ma è un’immagine che sembra essersi cristallizzata nel tempo. Il rumore della pala meccanica, a contatto con l’asfalto e lo stesso che sentivi dodici mesi fa. Il volto dell’operaio che guida il mezzo è severo e rugoso, come quello di chi sta portando a termine un’operazione che di poetico e romantico non ha un bel nulla. Ti fermi a scattare qualche foto, giri col cellulare qualche minuto di video, che può sempre tornare utile per l’archivio di una redazione televisiva. Il mare ha uno strano colore fatto di chiazze d’azzurro miste al marrone. Il colore della tragedia, che torna ogni volta che da queste parti la pioggia batte forte sulla montagna. Il giro prosegue. 

I luoghi della solidarietà, le chiese, la baracca di piazza Maio, dove fa sempre un certo effetto leggere quello striscione, “la nuova Pompei”. All’interno sono custodite le magliette di chi queli giorni ha scavato, anche a mani nude, per trovare vite. Ci sono i disegni e le bambole dei bambini. E c’è la pala che servì per togliere il fango dal corpo di Mariateresa, l’ultima vittima dispersa ritrovata. Qua e là qualche stella e alcune luminarie. Tanto per ricordare che tra poco è Natale. Proseguiamo verso le stradine che si inerpicano su per la montagna. Ci imbattiamo in grossi camion che trasportano terreno e materiale da smaltire. La collega che ci accompagna vive quassù. È tornata nella sua casa solo da qualche mese. Ha sentito sulla propria pelle il dolore e il disagio di quanto accaduto. Ma è una giornalista e deve raccontare, quello che ha visto e quello che ha subito. Il fango è secco ma è ancora lì, sotto le nostre scarpe. Gli alvei sono più puliti, sembrano più sicuri ma l’impressione è che la strada da fare per garantire certezza e futuro a questo territorio, sia ancora lunga e tortuosa. Ci sono le case distrutte, mobili ammassati, palloni e ricordi. Un uomo si aggira tra le macerie di quella che è stata la sua vita. Ha con sé il proprio cane. Amico fedele. Per lui che ci sia o meno una casa, non ha alcuna importanza. Pezzi di vetro e pezzi di vita, sparsi tutto intorno, con la cima della montagna segnata dai solchi lasciati dalla lava, che domina e ammonisce. Perché il pericolo è tutt’altro che passato. Si torna a valle, il tempo di parlare con gli sfollati. Ci offrono il pranzo ma chiedono di non essere fotografati. Rispettiamo la loro dignitosa sofferenza e andiamo via. Un anno è passato ma da queste parti il tempo si è fermato a quel 26 novembre del 2022. La partenza del traghetto verso Napoli è l’ennesimo voltare le spalle ad una realtà che non avremmo voluto mai raccontare.

* DIRETTORE “SCRIVONAPOLI”

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