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La sentenza: l’Agenzia delle Entrate non può basarsi su studi di settore

Di Laura Cipullo

Poche settimane fa, la Commissione Tributaria Regionale di Napoli, ha emesso una sentenza che potrebbe rivelarsi di fondamentale importanza per quanto riguarda gli accertamenti condotti dall’Agenzia delle Entrate nei confronti dei cittadini. Nello specifico, la sentenza, pronunciata lo scorso 17 settembre, si riferisce alla validità degli studi di settore come unica motivazione per la conduzione degli accertamenti. Quando parliamo di studi di settore ci riferiamo a dei parametri elaborati mediante analisi economiche e tecniche statistico-matematiche, attraverso i quali l’Agenzia delle Entrate stima i ricavi o i compensi che possono essere attribuiti ad una categoria di soggetti economici (ad esempio aziende che esercitano lo stesso tipo di attività nello stesso ambito economico).

Il motivo per cui la sentenza risulta essere di forte importanza è che sottolinea come gli studi di settore non possano essere considerati un dato assoluto per la conduzione degli accertamenti, ma, bensì, un metro relativo che può essere superato nel caso in cui il contribuente riesca a provare che i suoi introiti siano stati effettivamente inferiori a quelli calcolati.

Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto inadeguata la dichiarazione dei redditi di un’azienda, richiedendole, quindi, il pagamento di IRES, IRAP ed IVA basandosi sul reddito previsto dagli studi di settore, senza far riferimento al caso concreto. L’accertamento, però, si riferiva al primo anno di attività dell’azienda, la quale non avrebbe effettivamente potuto maturare un reddito superiore a quello dichiarato e che quindi aveva proceduto ad impugnare l’atto, richiedendone l’annullamento alla Commissione Tributaria Provinciale che, vista la congruità della contabilità della SRL, ne aveva accolto il ricorso, sebbene parzialmente, riducendo l’importo accertato del 30%.

Vista la sentenza di primo grado, l’azienda aveva presentato ricorso in appello, accolto dalla  Commissione Tributaria Regionale di Napoli, la quale, come si legge nella sentenza del 17 settembre 2015, ha sottolineato che “la motivazione di un atto di accertamento non può basarsi solo sulle risultanze dei calcoli dei parametri applicando percentuali di ricarico determinati secondo congruità, ma deve essere confortata da ulteriori elementi”, che ai fini dell’accertamento “l’Agenzia delle Entrate, ha l’onere di motivare e fornire prove per avvalorare l’attribuzione di maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica fintanto che verranno approvati i nuovi studi di settore” e che “dunque, la motivazione dell’avviso di accertamento fondato sugli studi di settore non può esaurirsi nella mera constatazione della sussistenza di uno scostamento fra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dallo studio”.

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«Gli studi di settore costituiscono un argomento abbastanza rilevante per i cittadini- ha spiegato l’avvocato Vito Mazzella- la sentenza è importante proprio perché va a consolidare dei precedenti indirizzi giurisprudenziali sull’onere probatorio che, però, non venivano seguiti dalla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli. Con questa sentenza di secondo grado sembra sia necessario un cambio di rotta anche per il primo grado. Molte commissioni di primo grado, infatti -ha continuato l’avvocato- non si adeguano a quelli che sono i principi espressi in materia, soprattutto riguardo all’onere della prova e alla validità relativa degli studi di settore, che non devono essere considerati un dato assoluto. Anzi, laddove il cittadino o l’impresa dimostri la regolarità delle operazioni, a tal punto, sarà l’Agenzia delle Entrate a dover provare il discostamento reale  del caso concreto e motivare l’accertamento, cosa che molto spesso non fa, in quanto si limita soltanto ad una contestazione generica».

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Entrando, poi, nel merito del caso ha spiegato: «L’agenzia delle Entrate non solo assumeva, in base agli studi di settore, che l’impresa avrebbe dovuto dichiarare dei redditi superiori, ma ha proceduto anche a rivedere le dichiarazione dei soci di una società di capitali e a fare ulteriori accertamenti e sanzioni a catena. L’accertamento, quindi, si è propagato anche ai soci dell’SRL. In primo grado era stato accolto il ricorso dell’azienda perché aveva dimostrato la congruità della contabilità e aveva fatto rilevare che un’azienda al primo anno di attività non poteva dichiarare quanto richiesto dall’agenzia dell’entrate, ma l’Agenzia delle Entrate è stata sorda e muta rispetto alle istanze avanzate dal cittadino e, parzialmente, questo mutismo si è propagato anche rispetto al primo grado, laddove la Commissione Tributaria Provinciale ha ridotto soltanto il 30% dell’importo accertato, senza motivare il perché della sua decisione. La Commissione Tributaria Regionale, invece, ha applicato i principi richiamati in materia, anche sulla base del ricorso sull’onere probatorio. La contestazione dell’agenzia delle Entrate non ha tenuto banco dinanzi a quella che è stata la sentenza della Commissione Tributaria Regionale».

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