ARCHIVIO 2

Fare il giornalista

 

di Graziano Petrucci

Premessa 1. Voglio riflettere, mi auguro di farlo assieme a voi, su un tema fondamentale che per certi aspetti può apparire come una serie di frasi fatte o retoriche. Fare il giornalista, occuparsi di comunicazione in genere, è un lavoro. Quando si parla di lavoro, qualsiasi lavoro, non si parla di hobby. Tuttavia c’è chi lo fa meglio di altri, come accade per altre professioni, e questo è un fatto. Qui, a Ischia, mettendo da parte ciò che accade nel resto d’Italia che non è incoraggiante, il tema è sempre attuale. Tanti, molti, che si occupano a vario titolo di questo settore delicato, per l’appunto i “giornalisti” che fanno da filtro e attraverso di loro la realtà si forma e prende forma, non sono veramente “occupati”. Devono fare i conti con una doppia convinzione diffusa tra i lettori e con chi non legge per niente. Vale a dire che “scrivere” non solo è, o può essere, una perdita di tempo ma se non ci si mette al soldo di qualcuno, come dire, i “soldi” – nel senso di un riconoscimento delle proprie fatiche– non arriveranno mai. Il che accade sempre più spesso sotto l’indifferenza che ci contraddistingue un po’ in tutto sull’isola. La voglia d’indipendenza, la libertà di espressione, e volere ottenere un riconoscimento dal punto di vista economico, fanno a cazzotti con la necessità di vivere e trarre sostentamento dall’impegno, e dal lavoro, che si è deciso di farei. Per esempio, prendete un artigiano o il meccanico o l’avvocato. Ognuno chiede di veder riconosciuto il lavoro e il tempo che ha impiegato per costruire un tavolo o una sedia, sostituire un pezzo dell’auto o raddrizzarlo, scrivere un atto importante o parlare a un giudice. Si potrebbe addirittura sfatare il mito basato sulla fantomatica divisione del lavoro tra “manuale” e “intellettuale”: il lavoro è tale, sempre. Per quale motivo chi scrive e dedica parte o l’intera giornata alla redazione di articoli non dovrebbe chiedere lo stesso riconoscimento attraverso un compenso? Perché sull’isola, ma come ho detto il discorso può ampliarsi al resto del paese, operare come professionista dell’informazione, significa tuffarsi nell’opinione comune che si tratta di un divertimento che non può mostrare necessità di ricompensa e che alla fine non è un ruolo indispensabile nella società? Il discorso è complesso. Dentro c’entra quella massa di fattori – cui corrispondono valori – come preparazione, competenza, serietà, che litiga con l’ambiente e con la società che costringe a trovare un compromesso per tenersi a galla. Molti operatori dell’informazione, infatti, sono indotti a riflettere e comportarsi di conseguenza offrendo il proprio lavoro a ribasso. Perché la società – isolana- non distingue per loro una funzione, nella credenza che quel lavoro non ha bisogno di una giusta testimonianza “economica”. Vero, ci sono “giornalisti” e “Giornalisti” e non c’entra l’appartenere o no all’ordine professionale. Anzi, se ci pensiamo bene, è solo una questione formale che permette di far fronte agli oneri o versare i contributi. In altre professioni si può fare la stessa differenza. Esistono “avvocati” e “Avvocati”, “tassisti” e “Tassisti”, “meccanici” e “Meccanici”, “albergatori” e “Albergatori”, “imprenditori” e “Imprenditori”, “politici” e “Politici” e così via. La questione si estende indubbiamente ad altri rami della collettività e in quel comparto che è il settore dei servizi (in cui dovrebbe rientrare pure il turismo). Comunque si voglia guardare esiste una differenza che genera contraccolpi sulla qualità, e per conseguenza sul modo di lavorare, e porta ad accettare paghe misere o assumere arie altrettanto povere. Si ragiona in svendita o al minimo delle proprie capacità. La difficoltà, comune a tutti i lavori,  sta nel riuscire a costruirsi quell’aura di autorevolezza che, forse, per i giornalisti, prende su di se un compito difficile ma obbligatorio per “stare dentro” la società. Non importa il “dove” si fa una cosa, ciò che invece conta è il “come” si fa quella cosa. E tuttavia al netto di questo ragionamento, in ogni caso, bisogna avere il legittimo compenso per la costruzione dell’opera, sia essa intellettuale o materiale-fisica. Solo dopo si potrà decidere se tizio ha soddisfatto oppure no le nostre attese. Prendete ciò che ho detto e calatelo nella vostra professione. Se un cliente venisse da voi per chiedervi aiuto per un lavoro e a cosa fatta vi dicesse “Vabbè, alla fine che hai fatto?” come la prendereste? Domande per interviste, articoli per i giornali e via discorrendo, per tanti rappresentano tutta roba che non richiede sforzo, meno ancora di tipo fisico. Quando va bene, la prestazione può essere pagata pure solo in parte rispetto a quanto chiesto, o comunque sotto le tariffe minime nazionali. Se ci fate caso, somiglia a quando si usa il dipendente – per esempio in albergo – oltre l’orario di lavoro (entrando in “straordinario” che non sarà mai ripagato). La voglia di “usare” una persona, sfruttandone il lavoro, si stabilizza sulla sicurezza che se abbandonerà il “posto” dopo di lei arriverà un’altra che potrà tranquillamente sostituirlo. Immaginate di chiamare l’idraulico per una perdita. Sul momento risolve il problema e lo pagate. Dopo il lavoro, però, l’acqua continua a scorrere. Magari ne chiamerete un altro, perché il primo non ha risolto niente e pagherete anche quello. In entrambi i casi avrete riconosciuto il suo lavoro perché “vi ha eseguito qualcosa che si vede”. Quello del giornalista, invece, no. Il suo lavoro è per lo più invisibile, spesso senza risultati immediati. Perciò si può evitare di pagarlo. Premessa 2. Magari qualcuno che riflette su tutto questo si trova.

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